8° EDIZIONE FESTIVAL DEL GIORNALISMO CULTURALE

SCIENZA, CULTURA
Passato, presente.
Lentezza, velocità.

Ottobre 2020


2017-10-13 0

Ieri, giovedì 12 ottobre, è cominciata la quinta edizione del Festival del Giornalismo Culturale con sede a Urbino e Fano e, novità di quest’anno, Pesaro. Ad aprire le danze sono stati i direttori Giorgio Zanchini e Lella Mazzoli, accompagnati dagli intermezzi musicali dal Quartetto di Conservatorio G. Rossini di Pesaro e dagli interventi di Vilberto Stocchi, Magnifico Rettore dell’Università di Urbino Carlo Bo, e Carlo Ossola, filologo e critico letterario.

«Grazie all’esperienza maturata nelle scorse edizioni – ricorda Zanchini nel discorso di apertura – quella di quest’anno si concentrerà su due punti fondamentali: in primo luogo come i prodotti culturali – dal cartaceo all’online – abbiano parlato in passato e come parlino, oggi, di cultura, analizzando quindi quanto sia cambiato il racconto della cultura stessa sui vari mass media. In secondo luogo il metodo attraverso il quale il patrimonio culturale racconta se stesso e in che modo sia poi percepito dal pubblico».  Vilberto Stocchi sottolinea invece il prestigio delle sedi che accoglieranno gli eventi dei prossimi giorni a cominciare dal Salone del Trono di Palazzo Ducale di Urbino: un’immensa sala decorata con grandi arazzi coloratissimi appesi alle pareti e situata proprio accanto al salone delle veglie che ha ospitato fin dalla seconda metà del ‘400 convegni di spiriti illustri, di cui parla lo stesso Baldassar Castiglione nel suo Cortegiano del 1506, stesso anno in cui, ricorda il Magnifico Rettore, nacque l’Università di Urbino Carlo Bo.

Carlo Ossola Photo: Marco Bonadonna

 

Giorgio Zanchini presenta poi Carlo Ossola. A salire sul palco non è solo uno dei più importanti critici letterari e filologi, ma uno dei sapienti italiani. La profondità della sua conoscenza nell’ambito della letteratura e della comunicazione ha pochi pari, e si percepisce subito. Il professor Ossola traccia le rette del suo intervento e le interseca con l’attualità: i social e la contemporaneità della nuova comunicazione. «Oggi si insegue l’evento – dice – ma questo tentativo di assoluta contemporaneità è un’illusione». Al giornalismo culturale, ricorda Ossola, spetta «Il compito di metter distanza e dare profondità di campo. Ma quindi cosa deve fare il giornalista culturale? Permettere all’evento, all’oggetto della comunicazione di brillare di luce propria. Come? Innanzitutto seguendo la virtù della chiarezza, perché è necessario rendere trasparente la complessità della cultura. Bisogna educare alla complessità raccontandola a chiare lettere, e non banalizzarla con una svilente semplificazione».

Dunque dev’essere questo il compito del giornalismo culturale: chiarificare. Compito che si fa arduo quanto necessario nel mare magnum dell’internet e dei nuovi media. Eppure l’impresa non è impossibile se ci si attiene a quelle che Ossola definisce (richiamando, tra gli altri, il tedesco Formey) le tre qualità del racconto: brevità, chiarezza e verisimiglianza. A queste, bisogna unire una forza capace di colpire anche il lettore più disattento, e la precisione, ché l’incomprensibile può solo ostacolare la fruizione culturale. Il professor Ossola, in chiusura, rievoca due grandi affinché si ergano a guide della prosa culturale: il primo è Giovanni Macchia con la sua analisi sul Corriere – datata 10 maggio 1964 – della civiltà dello sguardo, una civiltà abbagliata dal feticismo dell’occhio (affatto dissimile dall’attuale feticismo che incolla la vista sui social per ore). Mentre in chiusura, attraverso le parole di Carlo Bo, ci ricorda che «La lettura è anche fatica, e la lettura – nel fondo – finisce per essere un’introduzione alla verità – verità autonoma – a cui ogni spirito libero dà il nome che ritiene suo e ogni lettore innamorato si trova in mano un patrimonio di verità».

Solo applausi accompagnano chiusura della lectio magistralis: l’altissima caratura del suo intervento era chiara sin da subito.

Peter Aufreiter Photo Marco Bonadonna

 

A seguito della lectio del professor Ossola si è entrati nel dibattito vero e proprio. Assieme ai direttori del festival sono saliti sul palco Peter Aufreiter, direttore della Galleria Nazionale delle Marche, e Francesca Spatafora, direttrice del Museo archeologico nazionale A. Salinas. Lella Mazzoli inaugura il dibattito a partire dai dati e illustra il frutto di sette anni di ricerche sul rapporto tra gli italiani, la comunicazione dei musei e l’informazione culturale. Buone notizie arrivano dal numero dei visitatori annuali: solo il 26% degli italiani non ha visitato musei negli ultimi dodici mesi. Un buon risultato se si pensa che solo un anno scorso la percentuale ammontava al 33%.D’altra parte, i dati sulle fonti d’informazione culturale sono a tratti deludenti: il 41% degli italiani preferisce affidarsi ai propri contatti su Facebook ed, in generale, ad amici, familiari e conoscenti. Tutto a scapito di esperti, critici e professionisti. Il quadro globale, ovviamente, sottolinea la forza propulsiva dei social nella comunicazione dei musei. Non solo Facebook, ma anche Instagram e Pinterest possono aiutare gli enti culturali ad ampliare il proprio pubblico. Da questi dati, e dalla viva esperienza della direttrice del Museo archeologico nazionale A. Salinas, si accende il dibattito sulla comunicazione culturale.

 

Dopo il dibattito, la prima giornata del Festival del Giornalismo Culturale cambia scenografia: dal maestoso Palazzo Ducale di Urbino, si sposta alla Pescheria di Pesaro. Qui la mostra fotografica curata da AnsaL’arte da salvare” incanta e fa riflettere sulle enormi potenzialità spesso maltrattate del patrimonio culturale italiano. Il Festival però non finisce qui: prossima tappa il Teatro Rossini di Pesaro e la Biblioteca San Giovanni. Non mancate!

 

 

 

Luca Magrone, Marta Perroni



2016-10-15 0

La seconda giornata del Festival del Giornalismo Culturale di Urbino è stata aperta della lectio magistralis di Massimo Osanna, Direttore Generale della Soprintendenza di Pompei dal 2016.

Poco dopo, Vincenzo Trione, nel Salone del Trono del Palazzo Ducale di Urbino, ha presentato la sua ricerca sui micro-musei italiani. Ciò che ha mosso il suo gruppo di lavoro è stata la volontà di rappresentare l’altra faccia, spesso nascosta, del patrimonio culturale italiano. Ma a cosa ci riferiamo quando parliamo di micro-musei? Nella sua ricerca Trione ha considerato micro-musei quelle strutture presenti sul territorio nazionale che: non sono state comprese dal MiBACT tra i super-musei e ricadono fuori dai circuiti ufficiali e di massa.

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La mappatura di Vincenzo Trione ha diviso i micro-musei pubblici nelle seguenti tipologie: d’arte, archeologia, arte antica, arte moderna, arte contemporanea, design, archeologia, etnografici ed antropologici. Inoltre sono stati intercettati anche i micro-musei d’impresa e i micro-musei domestici.

Lella Mazzoli, invece, ha illustrato i dati emersi dalla ricerca Informazione e patrimonio culturale. Come si informano gli italiani, realizzata dall’Osservatorio News-Italia e dal LaRiCA dell’Università di Urbino. Tra i principali risultati si segnalano: la televisione che precede ancora internet nell’informazione culturale, la fruizione digitale dei contenuti che ormai è sempre più mobile la maggior parte degli intervistati italiani che vorrebbe più cultura sia in televisione che online.

(Foto di Matteo Marini)

Paolo Musano@paolomusano



2016-06-16 0

La cultura nella rete.
Questo il tema dell’incontro che si terrà domenica 19 giugno alle ore 10 al Circolo Cittadino di Urbino.

Nell’ambito di Urbino e le città del libro, Maria Teresa Carbone (giornalista e responsabile sezione arti di Pagina 99), Roberto Danese (Università di Urbino Carlo Bo) e Lella Mazzoli (Università di Urbino Carlo Bo) parleranno di informazione culturale e giornalismo all’epoca dei social media.

 



2016-05-13 0

Sabato 14 maggio alle ore 14.00 al XXIX Salone Internazionale del Libro.Torino
i direttori del Festival Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini parteciperanno a un incontro dal titolo: Dove va l’informazione culturale. Giornalismo e cultura nell’epoca dei social media
a partire dal volume
Info Cult. Nuovi scenari di produzione e uso dell’informazione culturale
a cura di Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini (FrancoAngeli 2015).

I dettagli dell’incontro sono disponibili al seguente link.



2015-05-26 0

E’ passato qualche giorno dalla chiusura della terza edizione del Festival del giornalismo culturale di Urbino. Forse il tempo necessario per riordinare le idee e capire cosa si è depositato, cosa è destinato a generare frutti, quali sono i nodi e i problemi che ci accompagneranno negli anni a venire.

Come ogni anno il festival partiva da una serie di domande: Dov’è oggi la cultura? Dove viene trasmessa, come viene trasmessa, chi la trasmette, chi è capace di comunicarla e promuoverla? che hanno in parte trovato risposta, ma come ogni anno il festival, le discussioni, le diverse sessioni, ci hanno portato anche in direzioni inaspettate. Si sono incrociati registri diversi, sguardi diversi, voci diverse e spesso le intuizioni migliori sono state generate dall’incontro tra il pubblico e i partecipanti.

Ci si chiederà se le domande poste all’inizio non siano retoriche, o più retoriche delle scorse edizioni. Qualcuno ricorderà gli interrogativi, o meglio le piattaforme, delle prime edizioni: qual è lo stato dell’arte dell’ informazione culturale italiana e nel confronto con le altre tradizioni geografiche? E lo scorso anno: quale il contributo che l’informazione culturale può dare all’uscita del paese dalla crisi? Perché dico retoriche a proposito delle domande di questa edizione? Perché oggi è improbabile che la risposta o le risposte non siano univoche: la Rete, il web.

In realtà la risposta, va da sé, andrebbe articolata, e occorre riconoscere che la trasformazione era ben chiara anche nelle discussioni degli anni passati, e tuttavia adesso il fenomeno ha assunto dimensioni macroscopiche. Non a caso le diverse sessioni del festival – volte a radiografare quello che sta accadendo nei vari media – si sono spesso risolte in analisi sugli effetti di Internet sul singolo medium. E tra gli effetti c’è indubbiamente una crescente crossmedialità, tanto che diversi ospiti hanno suggerito di abbandonare le divisioni per media e concentrarsi sui percorsi della notizia, degli approfondimenti. Che sono oggi, appunto, crossmediali.

Il terreno è stato arato – come sempre, come ogni anno – dai numeri, dalla ricerca. Grazie alle analisi dell’Osservatorio news-italia, del dipartimento di scienze della comunicazione dell’università di Urbino, il Festival si è aperto con i più aggiornati dati sulla dieta mediatica degli italiani e con una ricerca più specifica sulla cultura (quest’anno il focus è stato sull’informazione e la serialità). Come si informano gli italiani? Che cosa ci ha raccontato la direttrice del Festival Lella Mazzoli nel sintetizzare i dati?  Ha messo a confronto il 2011 e il 2015 e ci ha mostrato come la televisione resti il primo medium di informazione, come la carta stampata sia in radicale crisi, come Internet sia passato da quinto a secondo medium, e soprattutto come i giovani siano sempre più digitali e usino ormai social media e dispositivi mobili quali strumenti principali di connessione e informazione.

Dati che in fondo non ci hanno stupito e che hanno come si diceva quasi imposto la direzione delle diverse discussioni. A cominciare dalle riflessioni contenute nella lectio introduttiva di Piero Dorfles. Dorfles si in sostanza chiesto se la Rete – con le sue promesse di apertura, la sua straordinaria e benefica panoplia – possa riuscire a sanare la frattura, la separazione storica tra le due accezioni che specialmente in Italia sono state date al concetto di cultura, quello tra una cultura come sapere critico, una cultura complessa e seria, e una cultura intesa solo come intrattenimento, svago, distrazione, dumbing down, per usare un’espressione molto popolare nella letteratura anglosassone. La Rete ha potenzialmente la ricchezza, la forza, la pervasività per portarci a quella fusione tra saperi, quella convergenza tra campi e sguardi, che è in fondo una delle grandi ambizioni della tradizione illuministica. La Rete può in altre parole riprodurre nel campo culturale quello che è accaduto più in generale ai vecchi media nell’incontro con la rete, far convergere le culture, per parafrasare una felice intuizione di Jenkins.  Dorfles ci ha detto che no, che nel giornalismo culturale non c’è stata convergenza – di qui il titolo della sua lectio: cultura divergente.

Per Dorfles il giornalismo culturale continua ad essere un giornalismo di barriere e separazioni. La Rete ha sì messo in discussione la centralità della mediazione classica, la funzione dei giornalisti mediatori, e sono nati siti e blog di grande vitalità e interesse, ma restano spazi marginali, che non coinvolgono il pubblico più amplio, il lettore medio. La carta stampata resiste come luogo del sapere alto, complesso, ma resta un luogo elitario e si sta persino attenuando il feedback dei lettori. Radio e televisioni generaliste spingono nell’altra direzione, volgarizzazione, abbassamento, mercificazione. E quindi le divaricazioni si ampliano. Perché è successo questo? Di chi è la colpa? Dorfles risponde: della collettività. Che non punta davvero alla diffusione del sapere, che non cerca davvero la crescita. E degli intellettuali, che restano incapaci di parlare attraverso i media. E anche dei giornalisti, inadeguati, salvo eccezioni, a svolgere una vera funzione di cerniera.

Se è vero quanto provavo a dire all’inizio, ossia che la rivoluzione digitale e la centralità dell’ecosistema internet impongono il gioco e se il quadro della dieta mediale degli italiani è quello raccontato dalle ricerche dell’Osservatorio news-italia, era scontato che la sessione sulla carta stampata avesse come suo cuore la crisi e la trasformazione. Che è stata anzitutto descritta nell’introduzione di Giulia Cecchelin, e poi analizzata da giornalisti, studiosi, pubblico.

Massimiliano Panarari ha per così dire alzato il tiro, ha cercato di andare alla genesi dei processi che stiamo vivendo. E quindi alle trasformazioni negli stili di vita, nei comportamenti delle persone, nel modo in cui si informano e si relazionano. Partendo da una considerazione un po’ epocale ma condivisibile: la crisi attuale, la crisi della stampa tradizionale, della lettura in generale, nasce dalla crisi della dimensione pubblica nelle società occidentali. E’ un epoca, la nostra, che può essere definita di individualismo acquisitivo, e la crisi di readership in realtà è una crisi di opinione pubblica. Ciò che la rivoluzione digitale ci ha dato – la disintermediazione, l’orizzontalizzazione, la velocità di acquisizione, la soggettivizzazione della ricerca, la possibilità di trovare un palcoscenico – non ha fatto che rafforzare processi di individualizzazione che l’occidente conosce da decenni, invitando le persone a una sorta di autocomunicazione di massa. In un contesto del genere uno spazio pubblico condiviso, e i processi lenti di acquisizione dei saperi, non possono avere vita facile. L’Italia poi ci aggiunge dei fattori endogeni. Che rimandano alla nostra fragilità culturale, all’indebolimento dello status di chi lavora nel campo culturale, alla distrazione delle sue classi dirigenti.

Che fare? Quello che stanno cercando di mettere in atto alcuni quotidiani e alcune riviste. Puntare sul personal branding, sulle firme brand, su eventi che ricostruiscano identità di status, tribù di lettori. Una reintermediazione di ritorno, perché senza una dimensione pubblica di conversazione, dialogo, la stampa come l’abbiamo conosciuta nel XX secolo è destinata alla marginalità sociale. Ultimo punto importante: forse per non seppellire la stampa e un’opinione pubblica critica e consapevole, avremmo bisogno di un intervento pubblico, di una spinta gentile.

Come dicevo tutta la sessione è stata percorsa dalla consapevolezza della metamorfosi, e in una metamorfosi c’è chi prospera, chi guarda perplesso l’orizzonte, chi annaspa, chi muore.

Federico Sarica, ad esempio, direttore di RivistaStudio, ha detto di non porsi proprio più il problema della distinzione tra carta e web, “bisogna andare dove i lettori si trovano adesso”, e nel suo caso significa stare dappertutto, con un trimestrale cartaceo – che è quello che permette di vivere grazie agli inserzionisti -, una versione ipad bimestrale e un sito aggiornato quotidianamente. Un’integrazione compiuta tra carta e digitale (concetto ripreso da Leonardo Romei dell’Isia di Urbino: bisogna rompere la separazione grafica tra parole e immagini, far emergere le connessioni). Un’integrazione che in realtà in Italia si dà poco,  parte della crisi nasce da giornali fatti male, incapaci di abbattere le frontiere interne, di creare connessioni, percorsi (Paolo Di Paolo). Il problema industriale – sempre Sarica– ce l’hanno i quotidiani, non una rivista come la sua.

“Il problema i quotidiani ce l’hanno e come”, ha subito assentito Emanuele Bevilacqua, e la storia di Pagina 99 ne è la conferma (ma rinascerà, ha giurato). In realtà il modello economico italiano era in crisi da anni, è stato salvato dai prodotti collaterali, il punto è che abbiamo capito tardi e male ciò che stava accadendo. Oggi negli Stati Uniti i primi siti per numero di visitatori sono siti di media, e tutti gli investimenti dei grandi gruppi anglosassoni sono sul digitale. La crisi ha rallentato il processo, introdotto dubbi, ma adesso sembrano aver trovato un modello sostenibile. Il nodo è che bisogna far pagare i contenuti, cosa che da noi in Italia ancora non passa. Americani e inglesi hanno aumentato i prezzi dei cartacei e introdotto paywalls, hanno perso e irritato lettori ma adesso comincia a vedersi un futuro.

Ma ci sono state anche le posizioni di chi – Simonetta Fiori, Armando Massarenti, Luigi Mascheroni,  Annalena Benini -, in forme assertive o dubbiose, ha difeso il lavoro culturale tradizionale, quello che ci ha accompagnato nel ‘900. Massarenti: per me non è cambiato nulla, sono convinto che in un’ecologia dei media ci sia uno spazio per un inserto cartaceo dove fare qualcosa di prezioso, solido, che abbia lunga durata. Non credo sia utile trasferire quel contenuto sul web. Fiori (sedicente brontosaura): io non posso dare nulla a pollicino (chi usa principalmente il pollice), ma credo che ci sia ancora bisogno di gerarchizzazione e selezione, di un’idea di come funziona l’informazione quotidiana, la messa in ordine delle notizie. In questi anni il giornalismo culturale è cresciuto moltissimo, proprio in termini materiali, e abbiamo bisogno di strumenti per leggere, abbiamo bisogno di storia. A Repubblica stiamo lavorando per l’accorpamento delle redazioni, e io credo che seppure diversi, criteri e classificazioni possano convivere. Annalena Benini: bisogna puntare sulla qualità, sulla cura della scrittura, sullo stile, e cercare storie, cercare le storie del mondo, e raccontarle. Luca Mastrantonio: anch’io sono convinto che occorra aumentare la qualità, non necessariamente la lentezza è oggi un disvalore, sono figlio della carta ma non voglio essere orfano del web, e queste qualità si possono portare sulla rete.

Luigi Mascheroni: il giornalismo di carta è morente, ma il paradosso è che morirà stando benissimo. La qualità, la ricchezza italiana è molto alta, non vedete quanto sono piene di roba le pagine culturali italiane? Si sparirà e si rinascerà sul web, anche se in Italia ancora non c’è integrazione.

Se dunque il terreno, persino al di là delle intenzioni iniziali, è stato dettato dal nuovo paesaggio mediale, era in qualche modo inevitabile che la sessione dedicata al web fosse animata, viva, seguita. E si finisse per riflettere in particolare su un’affermazione: anche quando si parla di giornalismo culturale è impossibile non parlare di piattaforme.

Basterebbe riportare la prima frase di Mario Tedeschini Lalli (“l’universo digitale informa tutta la nostra vita”) e seguire poi il percorso del suo intervento – per il giornalismo culturale valgono le trasformazioni del campo giornalistico generale, cambiano i concetti di superficie e profondità, cambiano i percorsi cognitivi, è molto più facile oggi parlare e far parlare, diventa quindi decisivo conoscere l’architettura dell’informazione ed essere connettori di significati, questo deve fare un giornalista. Dobbiamo essere capaci di portare all’interno delle redazioni una cultura ingegneristica, e ammettere che nelle redazioni culturali la cultura digitale è entrata poco e male.

Da questi passaggi iniziali sono seguite considerazioni che toccano alcuni dei nodi del nostro vivere, connetterci, fare giornalismo. La paura di finire per  lavorare per Facebook, portare acqua al mulino di Facebook, consapevolmente o meno (Christian Raimo), la necessità di essere consapevoli delle sfide in atto, la necessità di parlare e discutere degli algoritmi, in primis di Facebook (Luca De Biase), di essere consapevoli che gli algoritmi sono raramente neutrali, specie quelli di players come Amazon (Fabio Giglietto, e contra Martin Angioni). Altro nodo: i social media quanto influenzano il corso dei media mainstream? La partecipazione attraverso i primi ha effetti sui secondi? Dipende dai media. Marginalmente in televisione, i tweets in fondo sono poco tenuti in conto dalla tv, mentre si rivelano una piattaforma utile per costruire legami, rafforzare la comunità dei lettori (Cristiana Raffa, su Pagina99).

Tutto ciò succedeva a Urbino, nel teatro Sanzio. Il giorno dopo, il 25 aprile, ci siamo spostati a Fano per parlare di radio e tv.  Sulla radio si sono intrecciate  – in maniera, mi permetto di dire, particolarmente felice – le voci di teorici e pratici. Già la fotografia introduttiva di Lucia Gabani ha insistito su quanto la Rete abbia rimodellato la radio e il fare radio, in un modo che va salutato come complessivamente positivo, specie per le opportunità che si sono aperte per il cosiddetto specifico culturale. Ma quando parliamo di radio bisogna avere lo sguardo lungo, ed è quello che ha portato Enrico Menduni.

Che ha detto Menduni? Che la radio, per via di alcune caratteristiche strutturali del medium stesso, ovvero la leggerezza, l’essere personale, l’interattività, la democraticità, ha in fondo anticipato Internet, ha fatto da battistrada, e quindi l’incontro tra i due non poteva che essere fruttuoso. I dati sull’ascolto, sulla radio digitale, sui nuovi modi e luoghi in cui è possibile ascoltare la radio, ne sono la conferma.

Il paesaggio non è però solo idilliaco. Soffrono i servizi pubblici. Perché il modello pubblico, come ha detto Andrea Borgnino, anche alla luce della sua esperienza e dei suoi rapporti con l’Ebu, è in crisi un po’ dappertutto, si vedono crepe, si prospettano tagli e si risponde con scioperi, in crisi un po’ ovunque tranne in Gran Bretagna con la Bbc, per ragioni che non è possibile ripercorrere in questa sede. E tuttavia – è stato il ragionamento di Lorenzo Pavolini,  di Daria Corrias – chi se non il servizio pubblico radiofonico può produrre cultura, e in particolare la cultura che il mercato non avrebbe nessun interesse a produrre?  La produzione culturale. Che è cosa diversa dall’informazione culturale. Va ricordato – è in effetti bene ribadirlo – che la radio non è solo informazione e approfondimento, è anche produzione culturale (pensiamo ai radiodrammi, alle serate teatrali, ai concerti, alle letture di romanzi), e la produzione culturale costa, ed è difficile, almeno in Italia, almeno oggi, ipotizzare una produzione culturale radiofonica al di fuori della sfera pubblica.  Uno stimolo, questo, che non poteva che amplificare la posizione di chi insiste sulla radio come medium portatore di una cultura specifica. Che significa questa affermazione? Che in radio, così come in televisione conta il palinsesto complessivo, la qualità delle trasmissioni, al di là dello specifico culturale, qualunque cosa quest’espressione significhi, e tra le qualità specifiche della radio c’è la capacità di produrre sapere vivo, per riprendere la felice espressione usata da Pietro del Soldà.

La televisione, infine. E qui il dato più interessante è che – forse per la sopravvivente centralità del medium, per una crisi meno percepibile, per la (miope?) sprezzatura con la quale viene guardata la Rete – la discussione è ruotata principalmente attorno al medium stesso e alla sua capacità o meno di fare cultura, e molto meno attorno alle trasformazioni provocate dalla Rete stessa. Forse solo Bruno Somalvico ha preso di petto la questione, dando il dato di visione attuale – 80% lineare, 20% non lineare – e aggiungendo che tra dieci anni l’inversione sarà totale. Per il resto si è ricamato su due questioni che sempre accompagnano il tema televisione e cultura: tv e libro sono due ambiti reciprocamente altri, è utile incaponirsi? E poi: occorre insistere (lo ha fatto Stefania Antonioni) sulla cultura della televisione, e non sulla cultura in televisione, mai scordare la specificità televisiva, che è quella di una narrazione per immagini, anche quando si cerca di parlare di libri, di arte, di musica.

Insomma, dal Festival è emersa molto forte la conferma che si è nel cuore di una crisi profonda, ma che la parola crisi va intesa nella sua accezione più antica, come scelta, occasione di cambiamento, trasformazione, evoluzione anche positiva.

Chi ha partecipato alle giornate di Urbino e Fano ha portato a casa un bagaglio corposo di dati, informazioni, stimoli, aperture verso un futuro che sarà molto diverso dal nostro presente, e che si comincia a intuire. Per questo crediamo necessario raccontare questa crisi, analizzare e fornire strumenti per leggere quello che sta accadendo all’informazione culturale e alla cultura nel suo complesso, e per questo riteniamo importante, e anche utile, costruire occasioni di riflessione collettiva come il Festival del giornalismo culturale.

Significa in buona sostanza, edizione dopo edizione, pedinare, leggere, anticipare i cambiamenti. All’anno prossimo!



2015-04-28 0

26 Aprile 2015
Quarta giornata del Festival del giornalismo culturale – Fano –

Bellezza è una parola ricca, che contiene in sé numerose sfumature di colore: fascino, ricchezza, eleganza. Bellezza accoglie in sé anche la cultura, e di conseguenza non potrebbe che parlare di Italia. Tema introdotto da Marisandra Lizzi è stata infatti la bellezza la protagonista della quarta e ultima giornata del Festival. La riflessione proposta all’inizio del dibattito da parte del capo ufficio stampa del CRN Marco Ferrazzoli e ispirata al sottotitolo del Festival stesso si è concentrata appunto sulla promozione della cultura.

Dalle Dolomiti a Matera, passando per Perugia e Torino, la bellezza è infatti la più grande responsabilità del nostro Paese nei confronti delle aspettative estere e non solo. Ed è attraverso la tutela del patrimonio e la scelta di investire sulla cultura che l’Italia può raggiungere orecchie e occhi lontani. Grazie al web e alle nuove tecnologie poi, ancora una volta, le opportunità si moltiplicano e si accelerano, permettendo alla nostra bellezza di raggiungere nicchie distanti dai suoi confini.

Anche quando l’investimento sulla cultura rappresenta un grande sforzo questo si scopre sempre fonte importante di guadagno per l’intero territorio. La cultura non muove soltanto le menti ma anche l’economia e la società. Puntare sull’arte e sulla bellezza rende il nostro Paese più competitivo, aumentandone il capitale umano e valorizzandone le specificità.

Il sottotitolo del Festival Promuovere la cultura conviene è dunque stato confermato. E se è vero che la cultura è fatta di persone, è responsabilità di tutti lavorare per il suo sviluppo e la sua divulgazione.

Conclude il dibattito la direttrice Lella Mazzoli, ricordando l’importanza di rivolgersi a un turismo di qualità piuttosto che di quantità. Circondate dalle delicate colonne della Mediateca Montanari di Fano, luogo che vede il mescolarsi delle più variegate espressioni della cultura, hanno poi suonato le note del clavicembalo di Marco Mencoboni, che hanno regalato all’intero Festival una chiusura elegante e quasi surreale.

Autore articolo: Giulia Ceirano – SCUOLA HOLDEN di Torino



2015-04-28 0

25 Aprile 2015
Terza giornata del Festival del giornalismo culturale – Fano –

La terza giornata del Festival si trasferisce nello splendido teatro della Fortuna di Fano, in un giorno che porta con sé non solo l’importante tema della cultura ma anche quello della memoria e della storia.

Il sindaco di Fano, Massimo Seri, e il direttore Giorgio Zanchini introducono il dibattito mattutino dedicato alla radio come medium in continua evoluzione. È infatti Lucia Gabani, studentessa dell’IFG di Urbino, a sottolineare la capacità dimostrata dalla radio, negli ultimi anni, di sfruttare al meglio le nuove tecnologie, diventando così sempre più interattiva e personale. La radio, che ha superato difficoltà grandi, come l’arrivo della televisione e regimi politici che spesso l’hanno soffocata e fatta tacere, ha oggi la possibilità di esprimersi attraverso il web, le app, le narrazioni seriali e le nuove strategie di storytelling, strumenti questi che la rendono trasversale e potenzialmente onnipresente.

Il pomeriggio, ancora inserito nella stessa suggestiva cornice, è dedicato alla riflessione sul medium televisivo. Questa volta è il giornalista e critico letterario Piero Dorfles a guidare gli interventi degli ospiti e Stefania Antonioni, dell’Università di Urbino Carlo Bo, a dare il via alla discussione.

L’interrogativo che si cerca di risolvere è che cosa sia oggi la cultura televisiva, in un mondo in cui è molto facile imbattersi in contenuti troppo poveri. Tra punti di vista più ottimisti e altri più disincantati, la cultura viene definita come strumento di sviluppo del senso critico, luce per le periferie, strada su cui perdere definitivamente sé stessi e infine come esperienza. Benché molto spesso emerga la sensazione di una mancanza di programma formativo e di marginalizzazione della cultura all’interno del palinsesto italiano, ciò che più si sente forte è il bisogno di crossmedialità e di ampliamento del concetto stesso di cultura oltre i suoi limiti.

La sessione si conclude tra le note dolci suonate dalla chitarra di Ernesto Bassignano, che raccontano una cultura profondamente radicata nella storia.

 La musica continua anche durante la serata dedicata al cinema. Irene Placci Califano (chitarrista) e Alessandro Culiani (violoncellista) introducono il dialogo tra il critico cinematografico Steve della Casa e Giacomo Manzoli dell’Università di Bologna. Interagiscono con loro celebri registi come Pasolini, Truffaut, Woody Allen e Sorrentino, attraverso le scene dei loro film proiettate sulla parete della Sala Verdi del Teatro della Fortuna.

La serata si conclude con l’intervento di Elisabetta Sgarbi che, proponendo la visione del suo film Quando i tedeschi non sapevano nuotare, vuole celebrare la Liberazione e la Resistenza italiane.

Come ricorda proprio lo sceneggiatore di questo lavoro Eugenio Lio “la cultura deve essere presente come consapevolezza della propria storia e delle proprie specificità”.

 Autore articolo: Giulia Ceirano – SCUOLA HOLDEN di Torino

 

 



2015-04-26 0

24 Aprile 2015
Seconda giornata del Festival del giornalismo culturale – Urbino –

La seconda giornata del Festival del Giornalismo Culturale si è tenuta sul palco del teatro Sanzio di Urbino. Numerosi dibattiti hanno occupato lo spazio dell’evento che, entrando nel cuore della manifestazione stessa, ha voluto interrogare gli invitati sullo stato sì del giornalismo culturale, ma anche della cultura giornalistica più in generale, nel nostro paese. Nel far questo gli ospiti chiamati ad intervenire hanno potuto esprimere la propria opinione in merito all’ambito comunicativo che più li rappresenta; in particolar modo la giornata ha visto centralizzare il focus delle argomentazioni sul mondo della carta stampata e su quello del web, ambienti oggi più che mai in apparente contrasto.
Durante la mattinata il dibattito sulla carta stampata è stato introdotto da Giulia Cecchelin, ricercatrice dell’università di Urbino, che ha fornito diverse suggestioni agli ospiti che hanno cercato di rispondere al quesito attuale sul destino del giornalismo stampato e su quali siano le eventuali mosse da compiere per fermare questo apparentemente inevitabile declino.

Le risposte tante e l’idea che i contenuti debbano orientarsi all’intrattenimento verso i nuovi pubblici ha ottenuto largo consenso.
Nel pomeriggio Christian Raimo, scrittore, ha invece diretto l’ulteriore discussione che ha preso in esame l’ambiente del web e il cambiamento nella forma dei contenuti.
Realtà come NewsTown all’Aquila e Good Morning Italia si sono messe in luce come progetti editoriali valenti nel nuovo panorama digitale. Durante la discussione è stato evidenziato come i contenuti giornalistici dovrebbero essere pensati appositamente per l’universo al quale sono destinati e i fruitori di comunicazione e cultura dovrebbero a loro volta conoscere e creare quello che i consumatori non sanno ancora di volere.
Sempre durante l’evento sono stati premiati i vincitori del concorso “Con la cultura si mangia?”,
che ha visto riconoscere il primato al Liceo Scientifico “ G. Marconi” di Pesaro per il bando delle scuole superiori e a Martina Russo per la categoria dei giovani giornalisti.

La giornata si è poi conclusa con la presentazione del nuovo libro di Luca Mastrantonio  “Pazzesco!” (Marsilio, 2015), che anche grazie ad una serie di giochi linguistici proposti in sala ha guidato una riflessione sullo stato della lingua italiana di oggi e sullo scollegamento che è avvenuto tra l’uso delle parole e il loro significato semantico.

Autore articolo: Luca Zanin – SCUOLA HOLDEN di Torino



2015-04-24 0

23 Aprile 2015
Prima giornata del Festival del giornalismo culturale – Urbino – 

Nel cortile del collegio Raffaello, sede della libreria Montefeltro di Urbino, si è aperta ieri la terza edizione del Festival del Giornalismo Culturale. Stefano Bartezzaghi, giornalista e scrittore, ha presentato il suo libro “ M. Una Metronovela” ( Einaudi, 2015) con il quale ha cercato come dice lui stesso “ di percorrere nuove frontiere di scrittura”. L’evento è stato decorato dalla partecipazione dei ragazzi dell’ISIA di Urbino ( Istituto Superiore per le Industrie Artistiche), che hanno fatto uno Scribing su degli appositi pannelli, raccontando l’opera di Bartezzaghi attraverso il disegno e rinnovando il tema delle diverse modalità di storytelling che oggi si propongono nel panorama comunicativo, di cui il Festival si fa portavoce.

La giornata è poi continuata a Palazzo Ducale dove, nella cornice gremita del Salone del Trono, Giorgio Zanchini e Lella Mazzoli ( coordinatori del Festival) hanno guidato una serie di interventi, che hanno visto la partecipazione del Rettore dell’Università di Urbino Vilberto Stocchi, con un discorso d’apertura sull’aspetto etico della veridicità delle informazioni in campo giornalistico e della stessa direttrice Mazzoli per esporre i risultati della sua ricerca sul cambiamento del metodo di fruizione  dell’informazione tra gli italiani negli ultimi anni, accompagnati inizialmente dalle musiche dei Kyknos Cello Quartet.

A ciò è seguita poi la consueta Lectio d’apertura, tenuta quest’anno da Piero Dorfles che ha cercato di rispondere al quesito su cosa sia la cultura oggi e su come si possa muovere in questo campo il giornalismo culturale.

L’ultimo evento della giornata si è tenuto nelle Grandi Cucine di Palazzo Ducale, dove la food writer Elisia Menduni ha diretto uno show coocking che ha visto protagonista Fabrizio Mantovani, chef del ristorante FM Sintonizzati con Gusto, e la sua riflessione su come nasce un piatto e sul rapporto tra gusto e design nella sua cucina.

Autore dell’articolo: Luca Zanin, SCUOLA HOLDEN di Torino