8° EDIZIONE FESTIVAL DEL GIORNALISMO CULTURALE

SCIENZA, CULTURA
Passato, presente.
Lentezza, velocità.

Ottobre 2020


2016-07-25 0

Nella cornice della sesta edizione del festival letterario “Sette sere Sette piazze Sette libri“, i direttori del Festival del giornalismo culturale Lella Mazzoli (Università di Urbino Carlo Bo) e Giorgio Zanchini (Rai Radio 1) si troveranno a Perdasdefogu (Nuoro) il 29 Luglio per parlare del ruolo dell’informazione culturale in Italia a partire dal libro “Info Cult. Nuovi scenari di produzione e uso dell’informazione culturale” (Franco Angeli 2015).

L’ntervento sarà moderato da Marino Sinibaldi (Rai Radio 3 e ospite del Festival del Giornalismo culturale 2016) e Alberto Urgu (Europa Quotidiano)



2016-05-13 0

Sabato 14 maggio alle ore 14.00 al XXIX Salone Internazionale del Libro.Torino
i direttori del Festival Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini parteciperanno a un incontro dal titolo: Dove va l’informazione culturale. Giornalismo e cultura nell’epoca dei social media
a partire dal volume
Info Cult. Nuovi scenari di produzione e uso dell’informazione culturale
a cura di Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini (FrancoAngeli 2015).

I dettagli dell’incontro sono disponibili al seguente link.



2015-05-26 0

E’ passato qualche giorno dalla chiusura della terza edizione del Festival del giornalismo culturale di Urbino. Forse il tempo necessario per riordinare le idee e capire cosa si è depositato, cosa è destinato a generare frutti, quali sono i nodi e i problemi che ci accompagneranno negli anni a venire.

Come ogni anno il festival partiva da una serie di domande: Dov’è oggi la cultura? Dove viene trasmessa, come viene trasmessa, chi la trasmette, chi è capace di comunicarla e promuoverla? che hanno in parte trovato risposta, ma come ogni anno il festival, le discussioni, le diverse sessioni, ci hanno portato anche in direzioni inaspettate. Si sono incrociati registri diversi, sguardi diversi, voci diverse e spesso le intuizioni migliori sono state generate dall’incontro tra il pubblico e i partecipanti.

Ci si chiederà se le domande poste all’inizio non siano retoriche, o più retoriche delle scorse edizioni. Qualcuno ricorderà gli interrogativi, o meglio le piattaforme, delle prime edizioni: qual è lo stato dell’arte dell’ informazione culturale italiana e nel confronto con le altre tradizioni geografiche? E lo scorso anno: quale il contributo che l’informazione culturale può dare all’uscita del paese dalla crisi? Perché dico retoriche a proposito delle domande di questa edizione? Perché oggi è improbabile che la risposta o le risposte non siano univoche: la Rete, il web.

In realtà la risposta, va da sé, andrebbe articolata, e occorre riconoscere che la trasformazione era ben chiara anche nelle discussioni degli anni passati, e tuttavia adesso il fenomeno ha assunto dimensioni macroscopiche. Non a caso le diverse sessioni del festival – volte a radiografare quello che sta accadendo nei vari media – si sono spesso risolte in analisi sugli effetti di Internet sul singolo medium. E tra gli effetti c’è indubbiamente una crescente crossmedialità, tanto che diversi ospiti hanno suggerito di abbandonare le divisioni per media e concentrarsi sui percorsi della notizia, degli approfondimenti. Che sono oggi, appunto, crossmediali.

Il terreno è stato arato – come sempre, come ogni anno – dai numeri, dalla ricerca. Grazie alle analisi dell’Osservatorio news-italia, del dipartimento di scienze della comunicazione dell’università di Urbino, il Festival si è aperto con i più aggiornati dati sulla dieta mediatica degli italiani e con una ricerca più specifica sulla cultura (quest’anno il focus è stato sull’informazione e la serialità). Come si informano gli italiani? Che cosa ci ha raccontato la direttrice del Festival Lella Mazzoli nel sintetizzare i dati?  Ha messo a confronto il 2011 e il 2015 e ci ha mostrato come la televisione resti il primo medium di informazione, come la carta stampata sia in radicale crisi, come Internet sia passato da quinto a secondo medium, e soprattutto come i giovani siano sempre più digitali e usino ormai social media e dispositivi mobili quali strumenti principali di connessione e informazione.

Dati che in fondo non ci hanno stupito e che hanno come si diceva quasi imposto la direzione delle diverse discussioni. A cominciare dalle riflessioni contenute nella lectio introduttiva di Piero Dorfles. Dorfles si in sostanza chiesto se la Rete – con le sue promesse di apertura, la sua straordinaria e benefica panoplia – possa riuscire a sanare la frattura, la separazione storica tra le due accezioni che specialmente in Italia sono state date al concetto di cultura, quello tra una cultura come sapere critico, una cultura complessa e seria, e una cultura intesa solo come intrattenimento, svago, distrazione, dumbing down, per usare un’espressione molto popolare nella letteratura anglosassone. La Rete ha potenzialmente la ricchezza, la forza, la pervasività per portarci a quella fusione tra saperi, quella convergenza tra campi e sguardi, che è in fondo una delle grandi ambizioni della tradizione illuministica. La Rete può in altre parole riprodurre nel campo culturale quello che è accaduto più in generale ai vecchi media nell’incontro con la rete, far convergere le culture, per parafrasare una felice intuizione di Jenkins.  Dorfles ci ha detto che no, che nel giornalismo culturale non c’è stata convergenza – di qui il titolo della sua lectio: cultura divergente.

Per Dorfles il giornalismo culturale continua ad essere un giornalismo di barriere e separazioni. La Rete ha sì messo in discussione la centralità della mediazione classica, la funzione dei giornalisti mediatori, e sono nati siti e blog di grande vitalità e interesse, ma restano spazi marginali, che non coinvolgono il pubblico più amplio, il lettore medio. La carta stampata resiste come luogo del sapere alto, complesso, ma resta un luogo elitario e si sta persino attenuando il feedback dei lettori. Radio e televisioni generaliste spingono nell’altra direzione, volgarizzazione, abbassamento, mercificazione. E quindi le divaricazioni si ampliano. Perché è successo questo? Di chi è la colpa? Dorfles risponde: della collettività. Che non punta davvero alla diffusione del sapere, che non cerca davvero la crescita. E degli intellettuali, che restano incapaci di parlare attraverso i media. E anche dei giornalisti, inadeguati, salvo eccezioni, a svolgere una vera funzione di cerniera.

Se è vero quanto provavo a dire all’inizio, ossia che la rivoluzione digitale e la centralità dell’ecosistema internet impongono il gioco e se il quadro della dieta mediale degli italiani è quello raccontato dalle ricerche dell’Osservatorio news-italia, era scontato che la sessione sulla carta stampata avesse come suo cuore la crisi e la trasformazione. Che è stata anzitutto descritta nell’introduzione di Giulia Cecchelin, e poi analizzata da giornalisti, studiosi, pubblico.

Massimiliano Panarari ha per così dire alzato il tiro, ha cercato di andare alla genesi dei processi che stiamo vivendo. E quindi alle trasformazioni negli stili di vita, nei comportamenti delle persone, nel modo in cui si informano e si relazionano. Partendo da una considerazione un po’ epocale ma condivisibile: la crisi attuale, la crisi della stampa tradizionale, della lettura in generale, nasce dalla crisi della dimensione pubblica nelle società occidentali. E’ un epoca, la nostra, che può essere definita di individualismo acquisitivo, e la crisi di readership in realtà è una crisi di opinione pubblica. Ciò che la rivoluzione digitale ci ha dato – la disintermediazione, l’orizzontalizzazione, la velocità di acquisizione, la soggettivizzazione della ricerca, la possibilità di trovare un palcoscenico – non ha fatto che rafforzare processi di individualizzazione che l’occidente conosce da decenni, invitando le persone a una sorta di autocomunicazione di massa. In un contesto del genere uno spazio pubblico condiviso, e i processi lenti di acquisizione dei saperi, non possono avere vita facile. L’Italia poi ci aggiunge dei fattori endogeni. Che rimandano alla nostra fragilità culturale, all’indebolimento dello status di chi lavora nel campo culturale, alla distrazione delle sue classi dirigenti.

Che fare? Quello che stanno cercando di mettere in atto alcuni quotidiani e alcune riviste. Puntare sul personal branding, sulle firme brand, su eventi che ricostruiscano identità di status, tribù di lettori. Una reintermediazione di ritorno, perché senza una dimensione pubblica di conversazione, dialogo, la stampa come l’abbiamo conosciuta nel XX secolo è destinata alla marginalità sociale. Ultimo punto importante: forse per non seppellire la stampa e un’opinione pubblica critica e consapevole, avremmo bisogno di un intervento pubblico, di una spinta gentile.

Come dicevo tutta la sessione è stata percorsa dalla consapevolezza della metamorfosi, e in una metamorfosi c’è chi prospera, chi guarda perplesso l’orizzonte, chi annaspa, chi muore.

Federico Sarica, ad esempio, direttore di RivistaStudio, ha detto di non porsi proprio più il problema della distinzione tra carta e web, “bisogna andare dove i lettori si trovano adesso”, e nel suo caso significa stare dappertutto, con un trimestrale cartaceo – che è quello che permette di vivere grazie agli inserzionisti -, una versione ipad bimestrale e un sito aggiornato quotidianamente. Un’integrazione compiuta tra carta e digitale (concetto ripreso da Leonardo Romei dell’Isia di Urbino: bisogna rompere la separazione grafica tra parole e immagini, far emergere le connessioni). Un’integrazione che in realtà in Italia si dà poco,  parte della crisi nasce da giornali fatti male, incapaci di abbattere le frontiere interne, di creare connessioni, percorsi (Paolo Di Paolo). Il problema industriale – sempre Sarica– ce l’hanno i quotidiani, non una rivista come la sua.

“Il problema i quotidiani ce l’hanno e come”, ha subito assentito Emanuele Bevilacqua, e la storia di Pagina 99 ne è la conferma (ma rinascerà, ha giurato). In realtà il modello economico italiano era in crisi da anni, è stato salvato dai prodotti collaterali, il punto è che abbiamo capito tardi e male ciò che stava accadendo. Oggi negli Stati Uniti i primi siti per numero di visitatori sono siti di media, e tutti gli investimenti dei grandi gruppi anglosassoni sono sul digitale. La crisi ha rallentato il processo, introdotto dubbi, ma adesso sembrano aver trovato un modello sostenibile. Il nodo è che bisogna far pagare i contenuti, cosa che da noi in Italia ancora non passa. Americani e inglesi hanno aumentato i prezzi dei cartacei e introdotto paywalls, hanno perso e irritato lettori ma adesso comincia a vedersi un futuro.

Ma ci sono state anche le posizioni di chi – Simonetta Fiori, Armando Massarenti, Luigi Mascheroni,  Annalena Benini -, in forme assertive o dubbiose, ha difeso il lavoro culturale tradizionale, quello che ci ha accompagnato nel ‘900. Massarenti: per me non è cambiato nulla, sono convinto che in un’ecologia dei media ci sia uno spazio per un inserto cartaceo dove fare qualcosa di prezioso, solido, che abbia lunga durata. Non credo sia utile trasferire quel contenuto sul web. Fiori (sedicente brontosaura): io non posso dare nulla a pollicino (chi usa principalmente il pollice), ma credo che ci sia ancora bisogno di gerarchizzazione e selezione, di un’idea di come funziona l’informazione quotidiana, la messa in ordine delle notizie. In questi anni il giornalismo culturale è cresciuto moltissimo, proprio in termini materiali, e abbiamo bisogno di strumenti per leggere, abbiamo bisogno di storia. A Repubblica stiamo lavorando per l’accorpamento delle redazioni, e io credo che seppure diversi, criteri e classificazioni possano convivere. Annalena Benini: bisogna puntare sulla qualità, sulla cura della scrittura, sullo stile, e cercare storie, cercare le storie del mondo, e raccontarle. Luca Mastrantonio: anch’io sono convinto che occorra aumentare la qualità, non necessariamente la lentezza è oggi un disvalore, sono figlio della carta ma non voglio essere orfano del web, e queste qualità si possono portare sulla rete.

Luigi Mascheroni: il giornalismo di carta è morente, ma il paradosso è che morirà stando benissimo. La qualità, la ricchezza italiana è molto alta, non vedete quanto sono piene di roba le pagine culturali italiane? Si sparirà e si rinascerà sul web, anche se in Italia ancora non c’è integrazione.

Se dunque il terreno, persino al di là delle intenzioni iniziali, è stato dettato dal nuovo paesaggio mediale, era in qualche modo inevitabile che la sessione dedicata al web fosse animata, viva, seguita. E si finisse per riflettere in particolare su un’affermazione: anche quando si parla di giornalismo culturale è impossibile non parlare di piattaforme.

Basterebbe riportare la prima frase di Mario Tedeschini Lalli (“l’universo digitale informa tutta la nostra vita”) e seguire poi il percorso del suo intervento – per il giornalismo culturale valgono le trasformazioni del campo giornalistico generale, cambiano i concetti di superficie e profondità, cambiano i percorsi cognitivi, è molto più facile oggi parlare e far parlare, diventa quindi decisivo conoscere l’architettura dell’informazione ed essere connettori di significati, questo deve fare un giornalista. Dobbiamo essere capaci di portare all’interno delle redazioni una cultura ingegneristica, e ammettere che nelle redazioni culturali la cultura digitale è entrata poco e male.

Da questi passaggi iniziali sono seguite considerazioni che toccano alcuni dei nodi del nostro vivere, connetterci, fare giornalismo. La paura di finire per  lavorare per Facebook, portare acqua al mulino di Facebook, consapevolmente o meno (Christian Raimo), la necessità di essere consapevoli delle sfide in atto, la necessità di parlare e discutere degli algoritmi, in primis di Facebook (Luca De Biase), di essere consapevoli che gli algoritmi sono raramente neutrali, specie quelli di players come Amazon (Fabio Giglietto, e contra Martin Angioni). Altro nodo: i social media quanto influenzano il corso dei media mainstream? La partecipazione attraverso i primi ha effetti sui secondi? Dipende dai media. Marginalmente in televisione, i tweets in fondo sono poco tenuti in conto dalla tv, mentre si rivelano una piattaforma utile per costruire legami, rafforzare la comunità dei lettori (Cristiana Raffa, su Pagina99).

Tutto ciò succedeva a Urbino, nel teatro Sanzio. Il giorno dopo, il 25 aprile, ci siamo spostati a Fano per parlare di radio e tv.  Sulla radio si sono intrecciate  – in maniera, mi permetto di dire, particolarmente felice – le voci di teorici e pratici. Già la fotografia introduttiva di Lucia Gabani ha insistito su quanto la Rete abbia rimodellato la radio e il fare radio, in un modo che va salutato come complessivamente positivo, specie per le opportunità che si sono aperte per il cosiddetto specifico culturale. Ma quando parliamo di radio bisogna avere lo sguardo lungo, ed è quello che ha portato Enrico Menduni.

Che ha detto Menduni? Che la radio, per via di alcune caratteristiche strutturali del medium stesso, ovvero la leggerezza, l’essere personale, l’interattività, la democraticità, ha in fondo anticipato Internet, ha fatto da battistrada, e quindi l’incontro tra i due non poteva che essere fruttuoso. I dati sull’ascolto, sulla radio digitale, sui nuovi modi e luoghi in cui è possibile ascoltare la radio, ne sono la conferma.

Il paesaggio non è però solo idilliaco. Soffrono i servizi pubblici. Perché il modello pubblico, come ha detto Andrea Borgnino, anche alla luce della sua esperienza e dei suoi rapporti con l’Ebu, è in crisi un po’ dappertutto, si vedono crepe, si prospettano tagli e si risponde con scioperi, in crisi un po’ ovunque tranne in Gran Bretagna con la Bbc, per ragioni che non è possibile ripercorrere in questa sede. E tuttavia – è stato il ragionamento di Lorenzo Pavolini,  di Daria Corrias – chi se non il servizio pubblico radiofonico può produrre cultura, e in particolare la cultura che il mercato non avrebbe nessun interesse a produrre?  La produzione culturale. Che è cosa diversa dall’informazione culturale. Va ricordato – è in effetti bene ribadirlo – che la radio non è solo informazione e approfondimento, è anche produzione culturale (pensiamo ai radiodrammi, alle serate teatrali, ai concerti, alle letture di romanzi), e la produzione culturale costa, ed è difficile, almeno in Italia, almeno oggi, ipotizzare una produzione culturale radiofonica al di fuori della sfera pubblica.  Uno stimolo, questo, che non poteva che amplificare la posizione di chi insiste sulla radio come medium portatore di una cultura specifica. Che significa questa affermazione? Che in radio, così come in televisione conta il palinsesto complessivo, la qualità delle trasmissioni, al di là dello specifico culturale, qualunque cosa quest’espressione significhi, e tra le qualità specifiche della radio c’è la capacità di produrre sapere vivo, per riprendere la felice espressione usata da Pietro del Soldà.

La televisione, infine. E qui il dato più interessante è che – forse per la sopravvivente centralità del medium, per una crisi meno percepibile, per la (miope?) sprezzatura con la quale viene guardata la Rete – la discussione è ruotata principalmente attorno al medium stesso e alla sua capacità o meno di fare cultura, e molto meno attorno alle trasformazioni provocate dalla Rete stessa. Forse solo Bruno Somalvico ha preso di petto la questione, dando il dato di visione attuale – 80% lineare, 20% non lineare – e aggiungendo che tra dieci anni l’inversione sarà totale. Per il resto si è ricamato su due questioni che sempre accompagnano il tema televisione e cultura: tv e libro sono due ambiti reciprocamente altri, è utile incaponirsi? E poi: occorre insistere (lo ha fatto Stefania Antonioni) sulla cultura della televisione, e non sulla cultura in televisione, mai scordare la specificità televisiva, che è quella di una narrazione per immagini, anche quando si cerca di parlare di libri, di arte, di musica.

Insomma, dal Festival è emersa molto forte la conferma che si è nel cuore di una crisi profonda, ma che la parola crisi va intesa nella sua accezione più antica, come scelta, occasione di cambiamento, trasformazione, evoluzione anche positiva.

Chi ha partecipato alle giornate di Urbino e Fano ha portato a casa un bagaglio corposo di dati, informazioni, stimoli, aperture verso un futuro che sarà molto diverso dal nostro presente, e che si comincia a intuire. Per questo crediamo necessario raccontare questa crisi, analizzare e fornire strumenti per leggere quello che sta accadendo all’informazione culturale e alla cultura nel suo complesso, e per questo riteniamo importante, e anche utile, costruire occasioni di riflessione collettiva come il Festival del giornalismo culturale.

Significa in buona sostanza, edizione dopo edizione, pedinare, leggere, anticipare i cambiamenti. All’anno prossimo!



2014-04-25 0

Che obiettivi ci eravamo posti lo scorso anno e quali quest’anno?

L’altr’anno, quello di fotografare il fenomeno, misurarne la salute, capire le direzioni che stava prendendo – tenendo assieme varie forme culturali e facendo convivere momenti di riflessione anche tecnica con lectio di figure popolari e acute, e musica, e cultura enogastronomica, e concorsi per studenti e giovani giornalisti. Un piccolo bilancio dell’edizione dello scorso anno è su questo stesso sito.

Quest’anno abbiamo pensato di fare un passo avanti e sintonizzarci il più possibile con il Paese, con la società italiana, di qui il titolo L’informazione per la cultura. Forse è semplicistico l’interrogativo: che cosa può fare l’informazione culturale per il Paese? Perché è sempre un po’ corrivo, un po’ angusto attribuire compiti precisi o materiali alla cultura e quindi anche all’informazione che si occupa di cultura.

E tuttavia ci sembra innegabile che in questi ultimi anni sia diventata centrale la riflessione sul declino italiano e più urgente, più continua la domanda sul come uscirne, come invertire la rotta.

La riflessione sul declino ci ha portato a trovare risposte soprattutto economiche ma non solo economiche, perché più volte si è detto che la crisi italiana è una crisi più generale, più profonda, una crisi culturale, qualcuno ha parlato di crisi antropologica.

Il punto è che è cresciuta la consapevolezza del ruolo e delle responsabilità della cultura, anche perché siamo sempre più consci del nesso strettissimo che c’è tra la cultura, l’istruzione, e il tasso di innovazione, in ultima analisi il benessere – quale che sia il significato di questa parola… – di un Paese.

E allora se la cultura è elemento decisivo, il veicolo della cultura lo è altrettanto, il ruolo di chi fa da tramite, da selettore, da mediatore, da portatore d’acqua tra la fonte, tra chi produce cultura, tra i prodotti culturali e il pubblico più o meno largo, e dunque chi parla di cultura, chi fa giornalismo culturale sulla panoplia di media che abbiamo oggi a disposizione ha una grande responsabilità.

Un ruolo, una responsabilità che ci consegnano vari interrogativi, che sono la trama, lo scheletro delle sessioni dell’edizione di quest’anno.

Eccoli, ma altri ne verranno proposti durante lo svolgimento del Festival:

– Di che cosa dovrebbe occuparsi il giornalismo culturale?
– Gli intellettuali e il pubblico, la qualità e i mass media. Dialoghi difficili? E perché?
– Se la cultura è motore di sviluppo c’è un compito specifico per l’informazione culturale?



2014-04-22 0

Aperture, sguardi diversi, esperienze: Corrado Augias e Piero Dorfles

Il Festival 2013 – il primo di una serie che ci auguriamo lunga – si è aperto con due voci che coniugano due note rare in Italia: popolarità e profondità.
Sono due giornalisti che hanno sperimentato tutti i media e sugli stessi hanno riflettuto e scritto. Corrado Augias con la lectio d’apertura nel palazzo ducale, venerdì 3 maggio, (“Si può raccontare il mondo?”), e Piero Dorfles con la lectio che ha avviato la giornata di lavori del sabato (“Un j’accuse al giornalismo culturale italiano”).
Augias ha battuto su un tasto: quando analizzo la cultura sui media devo fare riferimento alla cultura in senso tecnico, e quindi libri, mostre, concerti, etc., quella che i sociologi della cultura definirebbero un’accezione alta, tradizionale, ristretta del campo culturale. E quindi – ancora Augias – raramente l’informazione culturale è suggerita dall’attualità più stretta.
Cosa deve fare chi organizza le pagine culturali? Deve cercare di segnalare, stimolare il più possibile, senza spirito settario. Augias ha di Internet una visione preoccupata: è molto veloce ma poco potente, non aiuta – come altri mezzi – profondità, riflessione, impatto sulla società. Molto amaro il giudizio sulla televisione: un deserto.
Lungo e articolato il j’accuse di Piero Dorfles, anch’esso percorso da una vena severa.
L’informazione culturale è in grave crisi, addirittura a rischio estinzione. Il giornalismo cartaceo è in reale difficoltà, e il giornalismo culturale è parte di questa crisi. Negli ultimi vent’anni alcuni segnali rendono patente la profondità della crisi.
I giornali più piccoli, ma anche la tv e la radio hanno perso gli sguardi culturali, ed è specialmente il sistema radiotelevisivo generalista ad essersi impoverito.
Nelle news c’è sempre meno informazione culturale, che spesso sopravvive solo grazie alle morti dei celebri o alle notizie sui premi.
E’ come se il sistema dell’informazione di massa non avesse adempiuto alle promesse che si erano affacciate a partire dal secondo dopoguerra, promesse di apertura, di democratizzazione, di distribuzione della conoscenza. Non è riuscito a sfuggire alla generale debolezza del Paese, al declino dello stesso.
La crisi economica non ha certo aiutato, gli investimenti si sono ristretti, e il risultato è un paesaggio debole, un’offerta povera, con i critici spinti ai margini e una riduzione dei collaboratori esterni, che vengono ritenuti solo un costo. Una crisi che ha acuito un difetto molto italiano, quello di parlare dei libri degli amici, dei libri pubblicati dallo stesso gruppo editoriale che stampa il giornale o la rivista.
Cosa resta? Il dibattito, spesso vano e vacuo, la polemica, gli pseudo-scoop. L’autoreferenzialità, il parlarsi tra membri dello stesso circolo, il lessico cifrato. E la personalizzazione, il divismo, anche nel mondo della cultura.
C’è un modo migliore di fare informazione culturale? Forse quello degli inserti, che sono buoni. Ci vogliono serietà e severità. Bisogna far capire che nel mondo della cultura esistono gerarchie, che esiste autorevolezza, e che i recensori possono e devono essere liberi e ascoltabili.
E la Rete? Dorfles sospende il giudizio, le potenzialità sono enormi, i sospetti altrettanto.

Ma tra Augias e Dorfles c’è stato un incontro-lezione davvero magistrale. Nelle cucine di palazzo Ducale Davide Paolini e Marcello Leoni hanno discusso di cibo e cultura materiale. E’ stato uno dei momenti più allegri e partecipati, che il Festival vorrebbe si trasformasse in un segno distintivo, nella convinzione che la cd. cultura materiale è sapere, conoscenza, da trasmettere, da raccontare, possibilmente con la maestria, le capacità affabulatorie di Paolini. Lo chef Leoni ha anche preparato dei piatti spiegandone la storia e il rapporto col territorio. Non volava una mosca, non è avanzata una briciola.

Una fotografia dell’informazione culturale italiana: Donfrancesco, Lagioia, Panarari, Laterza, Roma, Russo.

Sottotitolo: com’era, com’è, come e perché è cambiata, dove si racconta oggi la cultura. La Terza e il Web.
L’universo mondo, in sostanza. Mattinata ambiziosa, dunque, che seguiva il j’accuse di Dorfles. E ne ha ripreso alcuni spunti.
A moderare Massimiliano Panarari, che ha esordito ricordando un punto talvolta sottovalutato ma in realtà centrale: il giornalismo culturale, il modo in cui è fatto, è un attore importante del processo di pedagogia civile, di costruzione della sfera pubblica. Di qui la domanda: la polemica, le polemiche sovente presenti sulle pagine culturali sono negative o in realtà parte, contributo alla battaglia delle idee, che è invece un fenomeno lodevole?
Giuseppe Laterza non si è sottratto, e si è detto convinto che le discussioni culturali, anche aspre, anche pretestuose, siano importanti per insegnare la pedagogia del confronto, dal crogiolo delle posizioni diverse si esce arricchiti. Laterza è poi tornato sul tema della critica, delle recensioni, lamentandone la scarsità, la leggerezza, la frettolosità.
Giuseppe Roma ha introdotto riflessioni basate sui dati Censis. Qualche esempio: non ci sono sostanzialmente più lettori di giornali cartacei che non sappiamo nulla di cultura. Un quarto degli italiani riceve informazioni sulla cultura solo dalla televisione, il 20% da quotidiani e televisione, il resto da Internet, che si ibrida con gli altri media.
Oggi dobbiamo tenere presente che siamo quasi tutti parte di uno spazio ipermediale, in cui volenti o nolenti incrociamo cultura, informazioni culturali, occorre trasformare questo incontro in uno strumento di crescita del Paese, insegnare a leggere il sistema e la fruttuosità degli incroci. Isabella Donfrancesco ha parlato del lavoro di RaiEducational, di ciò che RaiEdu fa per la letteratura in particolare e per la cultura più in generale, e ha spiegato l’importanza del saper mettersi in secondo piano, dello svolgere un ruolo da facilitatori.
Massimo Russo, fresco direttore di Wired, ha subito spiazzato la platea del Legato Albani con questa frase: oggi l’espressione più alta della cultura è la scrittura del codice. E ha poi aggiunto considerazioni molto stimolanti. Del tipo: occorre prendere atto che è cambiato il verso della comunicazione, da un modello di illuminazione dall’alto del basso a un modello a Rete, che si è ormai imposto. L’intelligenza sta nei nodi, nei margini, e vengono eliminati tutti gli intermediari che non aggiungono valore.
Nicola Lagioia ha concentrato il suo intervento sulle pagine dei quotidiani e degli inserti culturali. Molti i punti meritevoli di essere ricordati: oggi, con i ritmi e la varietà di strumenti della comunicazione, è quasi impossibile imporre un tema all’attenzione dei lettori, e qualsiasi tema invecchia nello spazio di un mattino; basta con la corsa a chi arriva primo – pensiamo a quel che accade all’uscita dei libri, la fretta di parlarne anche se non lo si è letto -, nel giornalismo culturale non dovrebbe essere un valore; le redazioni (e parlava della sua esperienza con l’inserto Orwell) dovrebbero aprirsi una volta al mese a chi fa cultura, agli artisti, ai fotografi, ai restauratori, a tutti; un problema vero è quello della proprietà dei giornali e dell’influenza degli investitori pubblicitari, è più facile criticare il Papa che Dolce & Gabbana.

La vivace stagione degli inserti culturali: Lagioia, Raimo, Mastrantonio, Massarenti, Danese.

Tavola rotonda moderata dallo stesso Lagioia, che ha invitato a tenere presenti alcuni dati: gli inserti son tanti ma in realtà faticano, sono poco conosciuti, gli edicolanti talvolta si scordano di darli; contano qualcosa nella società italiana? Probabilmente no, e tuttavia parlano a quei lettori forti che non possiamo mortificare, e quindi sì alle discussioni sui temi seri, i saperi veri, e no ai dibattiti falsi, costruiti.
Pirotecnico l’intervento di Christian Raimo, con slides cartacee più efficaci di quelle che abitualmente proiettiamo sugli schermi. Ecco i nodi, ecco le slides: 1) attenzione ai rischi di ufficiostampizzazione; 2) di autoreferenzialità; 3) di narrativizzazione (la fissazione dello storytelling, del fare racconto, alla Baricco, che non è critica); 4) di anticipazionismo; 5) sui giornali non deve prevalere l’impressionismo, mettiamo al servizio del lettore quello che abbiamo studiato, quello che abbiamo imparato, abbiamo anche un compito educativo, pensiamo al lavoro di Alex Ross sul New Yorker; 6) no a una conservazione classista dei saperi, bisogna schierarsi politicamente; 7) capacità di autocritica; 8) equità nei compensi, l’ordine dei giornalisti dovrebbe vigilare sui siti di informazione.
Armando Massarenti e Roberto Danese hanno ripreso alcuni di questi punti attraverso esempi concreti, parlando della “Domenica” del Sole e di “Alias” del Manifesto, ricordando quanto è importante trovare delle bussole nell’era della dispersione dei saperi, quanto è importante non abdicare ad una funzione alta, che è quella di seguire tutto ciò che si muove nel mondo della cultura e tradurlo nel modo più chiaro e serio possibile, per decine di migliaia di lettori. Ai quali devi dare molto perché pretendono molto, quindi no alle semplificazioni, alla corrività, all’abbassamento dell’offerta, all’assecondare i desideri del mercato. Luca Mastrantonio ha parlato in particolare del Corriere della Sera e de La Lettura, è tornato sul tema dei poteri, delle proprietà e della libertà, della difficoltà di discutere di temi culturali senza perdere soldi e ha ripreso la sollecitazione dell’inizio della mattinata sulla fruttuosità o distruttività dei dibattiti italiani, con una posizione che è sembrata pendere per la prima, figlia della tradizione liberale.

Che succede al di là delle Alpi? Marshall, Notarbartolo, Magi, Hernandez Velasco.

La parola iniziale ad Alberto Notarbartolo, moderatore con sguardo a 360° grazie alla sua esperienza ad Internazionale. Sguardo che gli fa dire che il nostro Paese, il nostro giornalismo non emerge bene dal confronto con le pagine culturali straniere. Più varie, più ricche, più aperte.
E siccome l’erba del vicino sembra sempre più verde tutti gli interventi successivi hanno pensato bene di smentire quest’assunto e dire che le pagine italiane non sono affatto male, e comunque meglio dei Paesi di provenienza dei parlanti. Come Irene Hernandez Velasco e Lucia Magi, spagnole, che scrivono sul Mundo e sul Pais. In Spagna, ha detto la prima, siamo molto più vittime di quella che Vargas Llosa in un saggio recente ha definito la civiltà dello spettacolo, dell’equivoco democrazia/abbassamento dell’offerta, col lettore che va divertito e non istruito. E’ vero, ha confermato Lucia Magi, ma non scordiamo che il giornalismo culturale è comunque giornalismo, e che se si vola troppo alti c’è il rischio di perdere lettori.
Lee Marshall ha disegnato un intervento molto comparativo, spiegandoci quanto cifra distintiva del giornalismo anglosassone sia la recensione, e come la contaminazione tra generi, tra alto e basso – e ha fatto i nomi di Raymond Williams e di Roland Barthes – sia molto più forte che in Europa. Ricordate che culture nel mondo inglese comprende lo spettacolo. A proposito delle recensioni si è interrogato sul futuro dei critici, ha raccontato del grande successo dei siti aggregatori di recensioni (specie cinematografiche) ma ha fatto presente che più o meno 45 pezzi su 60 sono recensioni del cartaceo, quindi il debito degli aggregatori nei confronti dei recensori classici è grande. Anche Marshall si è detto preoccupato per la cultura delle stelline e dei pallini, per il rischio di un rapporto troppo stretto tra industria cinematografica e critici, per la difficoltà della tenuta economica di chi faccia un giornale o una rivista o un sito specialistico in un mondo in cui tanta offerta è gratuita. Interessanti le considerazioni sull’arts reporting, ovvero sulla presenza di cultura (politica culturale, mercato della cultura, polemiche culturali) in parti del giornale che non sono quelle tradizionalmente dedicate alla cultura, un’arma a doppio taglio, così l’ha definita.

Perché le nostre pagine culturali parlano di attualità? Sinibaldi, Zaccuri, Bartoletti, Salis.

Alessandro Zaccuri, colui che ha coniato la condivisibile espressione “sguardo culturale sull’attualità”, a proposito del giornalismo culturale italiano: se parlare di cultura serve solo per parlare di cultura allora è inutile. La cultura deve parlare alla e della società. Lasciare ad esempio l’economia solo all’economia e agli economisti diventa un problema per la società. Stefano Salis, forte della sua esperienza al Sole24Ore, ha messo sull’avviso: non è tanto il cosa che conta, le cose di cui tu parli, ma il come, come ne parli. Per un giudizio critico ci vuole tempo e ragionamento, non possiamo essere vittime dell’attualità, della tirannia dell’attualità e della tirannia dell’attesa del pubblico. Ed è inutile fingere che il giornalismo non sia asimmetrico, che professionista e lettore siano sullo stesso piano, il giornale è un modo di ordinare le notizie del mondo, l’asimmetria è intrinseca. Roberta Bartoletti ha ripreso alcuni passaggi di Marshall, e introdotto il punto di vista della sociologa, dicendosi sorpresa del fatto che il giornalismo culturale italiano stia ancora a interrogarsi su gerarchie e classificazioni, sotto altri cieli sono state smantellate da tempo. Ha chiuso Marino Sinibaldi, che ci ha invitato a riflettere sul tema della difficoltà della mediazione e della selezione di fronte all’aumento quasi esponenziale di fonti e possibilità. Aggiungendo che oggi il nemico è il medio, la medietà rassicurante, come scriveva negli anni ’60 McDonald, e che compito della cultura e dell’informazione culturale di qualità è introdurre lo scarto di linguaggio e di pensiero.
E Marino Sinibaldi ha anche consegnato tutti i temi della giornata, per una riflessione conclusiva, a Concita De Gregorio, che veniva da un incontro con Laura Boldrini all’indomani dell’aggressione via web subita dalla presidente della Camera. E’ stato un modo per riprendere uno dei filoni più fertili tra i nodi affrontati dal Festival, ovvero le caratteristiche del discorso pubblico in Italia, come spesso degradi per via dell’incapacità reciproca di ascolto.

Giorgio Zanchini



2014-04-21 0

Aspettando il Festival – Urbino, 11 aprile 2014, libreria Il Portico

Tardo pomeriggio urbinate a discutere con un critico e un filologo di cosa significhi fare critica nell’era della connessione, della condivisione e della dispersione. In un contesto attento e silenzioso, una libreria indipendente, libraie appassionate e partecipi. E la voce profonda di Massimo Raffaeli, la sua eloquenza classica, elegante, precisa (Enzo Siciliano disse una volta: è come riascoltare Togliatti), ad aprire l’incontro.
Qui ve ne diamo un riassunto, dei densissimi interventi di Raffaeli e Danese, lucido, preoccupato viatico per il Festival del giornalismo culturale, ormai alle porte.

Scrive sui giornali da 35 anni, Massimo Raffaeli, da quando ne aveva 22, e in questo arco è cambiato tutto, gli strumenti sono completamente diversi, basti dire che per scrivere 7.500 battute un paio di decenni fa impiegava una giornata intera, e oggi mezza.
Ma la grande, vera trasformazione riguarda l’industria culturale e più in generale il mondo occidentale. Perché l’industria culturale è oggi, in modo dispiegato, una seconda natura.
Una seconda natura che non può che essere strumento della prima natura, che è il mondo del pensiero unico – conio di Ignatio Ramonet, l’unico suo titolo non tradotto, chissà perché -, dell’orizzonte neoliberista, un luogo senza vere vie d’uscita, senza alterità realisticamente perseguibili.

E quindi cosa è accaduto in questi anni alla critica, ai critici? Anzitutto che si sono moltiplicati, perché la Macchina ha bisogno di propagatori, la Macchina vuole ripetizione, non dimostrazione.
E poi che si confonde la loro funzione. Oggi è sempre più debole la domanda di senso critico, spirito critico, quello che chiediamo sono competenze e principio di prestazione.
E allora come si fa nel mondo delle merci a produrre una merce che tuttavia non è solo una merce?

Su questa trasformazione si è innestata la rivoluzione della Rete.
Che – per Raffaeli – significa varie cose: moltiplicazione di sedi e occasioni, amplificazione dello spazio possibile, velocità.
Ed è quest’ultima, con la sua seduttività, a nascondere il rischio più grande. Quello di un ribaltamento in simplicio – pensiamo al sistema di giudizi tramite pollice su o giù o al sistema delle stelline – e in un invito alla virtù più antintellettuale che esista: l’immediatezza.
Critica viene dal greco krinein, dal latino cernere. Significa distinguere, valutare, giudicare.
Sono verbi ben lontani dall’immediatezza.

Come si giudica oggi un buon critico?
In base a cosa, a quali criteri, lo valuti?
Il punto è che ogni mandato sociale è finito con gli anni ’60, la nozione di impegno che ci ha accompagnato dal j’accuse agli anni ’60 non può più aiutarci, perché non c’è più alcun referente certo. Non esiste un campo a cui fare riferimento senza la necessità di introdurre poi distinzioni che annientano quello stesso campo.
E oltretutto che cosa ci dicono i critici – la stragrande maggioranza – oggi? Che questo è l’unico mondo concepibile, forse il migliore dei mondi possibili, dal quale è inconcepibile separarsi.

Che può fare dunque chi considera questa situazione senza via d’uscita come un incubo?
Forse quel che suggerisce Zanzotto nella poesia Al mondo.
Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente.
E poi il finale:
Su, bello, su
Su, barone di Münchausen.
Ovvero? Ovvero il paradosso di chi per salvarsi afferra i propri capelli e si solleva da sé. Che significa che anche senza riferimenti, referenti, basi, ideologie, alterità, dobbiamo tirarci fuori da noi, fare leva su noi stessi, sulla nostra responsabilità, agire – e dunque fare critica – come se… dando noi stessi le coordinate per la nostra azione. Che deve essere onesta, partecipabile, condivisibile. La critica deve essere onesta, partecipabile, condivisibile.

E quindi come operare di fronte alla grande Rete?
Sfruttandone le possibilità, sempre però con un atteggiamento sospettoso, rifuggire dalle immediatezze, dalle recensioni e dai giudizi buttati lì veloci, dal dare fiato alla bocca, dai massaggi corticali che la rete esercita su di noi, le seduzioni che è capace di mettere in campo.

Pintor e l’essenzialità
Raffaeli ha chiuso raccontando una vicenda che ha avuto come protagonista Luigi Pintor. Era l’epoca dei giovani arrembanti al Manifesto. Gianni Riotta va da Pintor e gli dice: Luigi, ha chiamato X (una delle firme forti del quotidiano) per lamentare il taglio del suo articolo. Pintor non risponde. Riotta se ne va. Torna dopo un po’ e dice: ha ritelefonato X, è irritatissimo perché gli abbiamo tagliato la frase essenziale del suo pezzo. Pintor: poteva scrivere solo quella.

Roberto Danese: cos’è rimasto della critica oggi?
Danese ha ripreso vari passaggi dell’intervento di Raffaeli, insistendo sulla questione velocità – smussa la durata – ma giustapponendovi la questione di disposizione dei contenuti. Le forme del medium condizionano produzione e ricezione.
L’effetto più evidente è l’istantaneità, il giudizio critico entra immediatamente in contatto con altri. Quando pubblichi scatta subito l’interattività e ogni intervento ha code potenzialmente lunghissime.
C’è una ricerca sulla prosa dei giornalisti sportivi americani. Quando hanno cominciato ad usare il computer portatile è cambiata la sintassi. Il loro periodare si è fatto più breve e paratattico.
In ultima analisi non c’è contraddizione tra dimensione elettronica e dimensione cartacea, c’è complementarità, il punto è che il cartaceo ne uscirà diverso.

 Giorgio Zanchini



2014-04-05 0

Aspettando il festival – La critica al tempo di internet
Venerdì 11 aprile, ore 18 alla Libreria Il Portico, Urbino

Aspettando il Festival torna venerdì 11 aprile (ore 18) con un nuovo appuntamento: “La critica al tempo di internet”. Alla Libreria Il Portico (via Mazzini, 7) i direttori del Festival del giornalismo culturale, Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini, dialogheranno con Massimo Raffaeli, critico letterario e Roberto Danese, docente di filologia classica e direttore del master “Professionisti dell’informazione culturale” all’Università di Urbino.

Quale critica letteraria è possibile ai tempi di Internet, dei social network, per esempio di Twitter e di Facebook? Gli ospiti, condotti dai due direttori del Festival, daranno vita a un dibattito nel quale sapranno coinvolgere il pubblico e invitarlo a questa interessante riflessione.



2014-03-23 0

I direttori Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini hanno annunciato che sarà Beppe Severgnini a tenere la lectio di apertura del festival, sabato 25 aprile.



2014-03-23 0

Dopo Pesaro, la sala del trono di Palazzo Ducale. La seconda edizione del festival del giornalismo culturale – che si svolgerà a Urbino dal 25 al 27 aprile è stata presentata ieri ufficialmente all’ombra dei torricini. Gli organizzatori Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini hanno svelato alcuni dei nomi che parteciperanno al festival: tra loro ci saranno lo scrittore Marco Belpoliti, l’Editore Giuseppe Laterza e il giornalista Alessandro Zaccuri.

Mazzoli ha anche annunciato che ad aprire la prima giornata del festival potrebbe essere un ministro. Riferendosi al personaggio illustre, la direttrice del Dipartimento di Scienze della comunicazione dell’Università Carlo Bo, ha anche aggiunto il termine ‘lei’, restringendo di fatto il campo alle 8 donne che compongono il Governo Renzi.

Leggi l’articolo: Grandi nomi e (forse) una ministra a Urbino per il festival del giornalismo culturale – Il Ducato 15 marzo 2014