Aspettando il Festival – Urbino, 11 aprile 2014, libreria Il Portico
Tardo pomeriggio urbinate a discutere con un critico e un filologo di cosa significhi fare critica nell’era della connessione, della condivisione e della dispersione. In un contesto attento e silenzioso, una libreria indipendente, libraie appassionate e partecipi. E la voce profonda di Massimo Raffaeli, la sua eloquenza classica, elegante, precisa (Enzo Siciliano disse una volta: è come riascoltare Togliatti), ad aprire l’incontro.
Qui ve ne diamo un riassunto, dei densissimi interventi di Raffaeli e Danese, lucido, preoccupato viatico per il Festival del giornalismo culturale, ormai alle porte.
Scrive sui giornali da 35 anni, Massimo Raffaeli, da quando ne aveva 22, e in questo arco è cambiato tutto, gli strumenti sono completamente diversi, basti dire che per scrivere 7.500 battute un paio di decenni fa impiegava una giornata intera, e oggi mezza.
Ma la grande, vera trasformazione riguarda l’industria culturale e più in generale il mondo occidentale. Perché l’industria culturale è oggi, in modo dispiegato, una seconda natura.
Una seconda natura che non può che essere strumento della prima natura, che è il mondo del pensiero unico – conio di Ignatio Ramonet, l’unico suo titolo non tradotto, chissà perché -, dell’orizzonte neoliberista, un luogo senza vere vie d’uscita, senza alterità realisticamente perseguibili.
E quindi cosa è accaduto in questi anni alla critica, ai critici? Anzitutto che si sono moltiplicati, perché la Macchina ha bisogno di propagatori, la Macchina vuole ripetizione, non dimostrazione.
E poi che si confonde la loro funzione. Oggi è sempre più debole la domanda di senso critico, spirito critico, quello che chiediamo sono competenze e principio di prestazione.
E allora come si fa nel mondo delle merci a produrre una merce che tuttavia non è solo una merce?
Su questa trasformazione si è innestata la rivoluzione della Rete.
Che – per Raffaeli – significa varie cose: moltiplicazione di sedi e occasioni, amplificazione dello spazio possibile, velocità.
Ed è quest’ultima, con la sua seduttività, a nascondere il rischio più grande. Quello di un ribaltamento in simplicio – pensiamo al sistema di giudizi tramite pollice su o giù o al sistema delle stelline – e in un invito alla virtù più antintellettuale che esista: l’immediatezza.
Critica viene dal greco krinein, dal latino cernere. Significa distinguere, valutare, giudicare.
Sono verbi ben lontani dall’immediatezza.
Come si giudica oggi un buon critico?
In base a cosa, a quali criteri, lo valuti?
Il punto è che ogni mandato sociale è finito con gli anni ’60, la nozione di impegno che ci ha accompagnato dal j’accuse agli anni ’60 non può più aiutarci, perché non c’è più alcun referente certo. Non esiste un campo a cui fare riferimento senza la necessità di introdurre poi distinzioni che annientano quello stesso campo.
E oltretutto che cosa ci dicono i critici – la stragrande maggioranza – oggi? Che questo è l’unico mondo concepibile, forse il migliore dei mondi possibili, dal quale è inconcepibile separarsi.
Che può fare dunque chi considera questa situazione senza via d’uscita come un incubo?
Forse quel che suggerisce Zanzotto nella poesia Al mondo.
Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente.
E poi il finale:
Su, bello, su
Su, barone di Münchausen.
Ovvero? Ovvero il paradosso di chi per salvarsi afferra i propri capelli e si solleva da sé. Che significa che anche senza riferimenti, referenti, basi, ideologie, alterità, dobbiamo tirarci fuori da noi, fare leva su noi stessi, sulla nostra responsabilità, agire – e dunque fare critica – come se… dando noi stessi le coordinate per la nostra azione. Che deve essere onesta, partecipabile, condivisibile. La critica deve essere onesta, partecipabile, condivisibile.
E quindi come operare di fronte alla grande Rete?
Sfruttandone le possibilità, sempre però con un atteggiamento sospettoso, rifuggire dalle immediatezze, dalle recensioni e dai giudizi buttati lì veloci, dal dare fiato alla bocca, dai massaggi corticali che la rete esercita su di noi, le seduzioni che è capace di mettere in campo.
Pintor e l’essenzialità
Raffaeli ha chiuso raccontando una vicenda che ha avuto come protagonista Luigi Pintor. Era l’epoca dei giovani arrembanti al Manifesto. Gianni Riotta va da Pintor e gli dice: Luigi, ha chiamato X (una delle firme forti del quotidiano) per lamentare il taglio del suo articolo. Pintor non risponde. Riotta se ne va. Torna dopo un po’ e dice: ha ritelefonato X, è irritatissimo perché gli abbiamo tagliato la frase essenziale del suo pezzo. Pintor: poteva scrivere solo quella.
Roberto Danese: cos’è rimasto della critica oggi?
Danese ha ripreso vari passaggi dell’intervento di Raffaeli, insistendo sulla questione velocità – smussa la durata – ma giustapponendovi la questione di disposizione dei contenuti. Le forme del medium condizionano produzione e ricezione.
L’effetto più evidente è l’istantaneità, il giudizio critico entra immediatamente in contatto con altri. Quando pubblichi scatta subito l’interattività e ogni intervento ha code potenzialmente lunghissime.
C’è una ricerca sulla prosa dei giornalisti sportivi americani. Quando hanno cominciato ad usare il computer portatile è cambiata la sintassi. Il loro periodare si è fatto più breve e paratattico.
In ultima analisi non c’è contraddizione tra dimensione elettronica e dimensione cartacea, c’è complementarità, il punto è che il cartaceo ne uscirà diverso.
Giorgio Zanchini