8° EDIZIONE FESTIVAL DEL GIORNALISMO CULTURALE

SCIENZA, CULTURA
Passato, presente.
Lentezza, velocità.

Ottobre 2020

Il Festival del giornalismo culturale 2013: cosa si è detto

2014-04-22 0

Aperture, sguardi diversi, esperienze: Corrado Augias e Piero Dorfles

Il Festival 2013 – il primo di una serie che ci auguriamo lunga – si è aperto con due voci che coniugano due note rare in Italia: popolarità e profondità.
Sono due giornalisti che hanno sperimentato tutti i media e sugli stessi hanno riflettuto e scritto. Corrado Augias con la lectio d’apertura nel palazzo ducale, venerdì 3 maggio, (“Si può raccontare il mondo?”), e Piero Dorfles con la lectio che ha avviato la giornata di lavori del sabato (“Un j’accuse al giornalismo culturale italiano”).
Augias ha battuto su un tasto: quando analizzo la cultura sui media devo fare riferimento alla cultura in senso tecnico, e quindi libri, mostre, concerti, etc., quella che i sociologi della cultura definirebbero un’accezione alta, tradizionale, ristretta del campo culturale. E quindi – ancora Augias – raramente l’informazione culturale è suggerita dall’attualità più stretta.
Cosa deve fare chi organizza le pagine culturali? Deve cercare di segnalare, stimolare il più possibile, senza spirito settario. Augias ha di Internet una visione preoccupata: è molto veloce ma poco potente, non aiuta – come altri mezzi – profondità, riflessione, impatto sulla società. Molto amaro il giudizio sulla televisione: un deserto.
Lungo e articolato il j’accuse di Piero Dorfles, anch’esso percorso da una vena severa.
L’informazione culturale è in grave crisi, addirittura a rischio estinzione. Il giornalismo cartaceo è in reale difficoltà, e il giornalismo culturale è parte di questa crisi. Negli ultimi vent’anni alcuni segnali rendono patente la profondità della crisi.
I giornali più piccoli, ma anche la tv e la radio hanno perso gli sguardi culturali, ed è specialmente il sistema radiotelevisivo generalista ad essersi impoverito.
Nelle news c’è sempre meno informazione culturale, che spesso sopravvive solo grazie alle morti dei celebri o alle notizie sui premi.
E’ come se il sistema dell’informazione di massa non avesse adempiuto alle promesse che si erano affacciate a partire dal secondo dopoguerra, promesse di apertura, di democratizzazione, di distribuzione della conoscenza. Non è riuscito a sfuggire alla generale debolezza del Paese, al declino dello stesso.
La crisi economica non ha certo aiutato, gli investimenti si sono ristretti, e il risultato è un paesaggio debole, un’offerta povera, con i critici spinti ai margini e una riduzione dei collaboratori esterni, che vengono ritenuti solo un costo. Una crisi che ha acuito un difetto molto italiano, quello di parlare dei libri degli amici, dei libri pubblicati dallo stesso gruppo editoriale che stampa il giornale o la rivista.
Cosa resta? Il dibattito, spesso vano e vacuo, la polemica, gli pseudo-scoop. L’autoreferenzialità, il parlarsi tra membri dello stesso circolo, il lessico cifrato. E la personalizzazione, il divismo, anche nel mondo della cultura.
C’è un modo migliore di fare informazione culturale? Forse quello degli inserti, che sono buoni. Ci vogliono serietà e severità. Bisogna far capire che nel mondo della cultura esistono gerarchie, che esiste autorevolezza, e che i recensori possono e devono essere liberi e ascoltabili.
E la Rete? Dorfles sospende il giudizio, le potenzialità sono enormi, i sospetti altrettanto.

Ma tra Augias e Dorfles c’è stato un incontro-lezione davvero magistrale. Nelle cucine di palazzo Ducale Davide Paolini e Marcello Leoni hanno discusso di cibo e cultura materiale. E’ stato uno dei momenti più allegri e partecipati, che il Festival vorrebbe si trasformasse in un segno distintivo, nella convinzione che la cd. cultura materiale è sapere, conoscenza, da trasmettere, da raccontare, possibilmente con la maestria, le capacità affabulatorie di Paolini. Lo chef Leoni ha anche preparato dei piatti spiegandone la storia e il rapporto col territorio. Non volava una mosca, non è avanzata una briciola.

Una fotografia dell’informazione culturale italiana: Donfrancesco, Lagioia, Panarari, Laterza, Roma, Russo.

Sottotitolo: com’era, com’è, come e perché è cambiata, dove si racconta oggi la cultura. La Terza e il Web.
L’universo mondo, in sostanza. Mattinata ambiziosa, dunque, che seguiva il j’accuse di Dorfles. E ne ha ripreso alcuni spunti.
A moderare Massimiliano Panarari, che ha esordito ricordando un punto talvolta sottovalutato ma in realtà centrale: il giornalismo culturale, il modo in cui è fatto, è un attore importante del processo di pedagogia civile, di costruzione della sfera pubblica. Di qui la domanda: la polemica, le polemiche sovente presenti sulle pagine culturali sono negative o in realtà parte, contributo alla battaglia delle idee, che è invece un fenomeno lodevole?
Giuseppe Laterza non si è sottratto, e si è detto convinto che le discussioni culturali, anche aspre, anche pretestuose, siano importanti per insegnare la pedagogia del confronto, dal crogiolo delle posizioni diverse si esce arricchiti. Laterza è poi tornato sul tema della critica, delle recensioni, lamentandone la scarsità, la leggerezza, la frettolosità.
Giuseppe Roma ha introdotto riflessioni basate sui dati Censis. Qualche esempio: non ci sono sostanzialmente più lettori di giornali cartacei che non sappiamo nulla di cultura. Un quarto degli italiani riceve informazioni sulla cultura solo dalla televisione, il 20% da quotidiani e televisione, il resto da Internet, che si ibrida con gli altri media.
Oggi dobbiamo tenere presente che siamo quasi tutti parte di uno spazio ipermediale, in cui volenti o nolenti incrociamo cultura, informazioni culturali, occorre trasformare questo incontro in uno strumento di crescita del Paese, insegnare a leggere il sistema e la fruttuosità degli incroci. Isabella Donfrancesco ha parlato del lavoro di RaiEducational, di ciò che RaiEdu fa per la letteratura in particolare e per la cultura più in generale, e ha spiegato l’importanza del saper mettersi in secondo piano, dello svolgere un ruolo da facilitatori.
Massimo Russo, fresco direttore di Wired, ha subito spiazzato la platea del Legato Albani con questa frase: oggi l’espressione più alta della cultura è la scrittura del codice. E ha poi aggiunto considerazioni molto stimolanti. Del tipo: occorre prendere atto che è cambiato il verso della comunicazione, da un modello di illuminazione dall’alto del basso a un modello a Rete, che si è ormai imposto. L’intelligenza sta nei nodi, nei margini, e vengono eliminati tutti gli intermediari che non aggiungono valore.
Nicola Lagioia ha concentrato il suo intervento sulle pagine dei quotidiani e degli inserti culturali. Molti i punti meritevoli di essere ricordati: oggi, con i ritmi e la varietà di strumenti della comunicazione, è quasi impossibile imporre un tema all’attenzione dei lettori, e qualsiasi tema invecchia nello spazio di un mattino; basta con la corsa a chi arriva primo – pensiamo a quel che accade all’uscita dei libri, la fretta di parlarne anche se non lo si è letto -, nel giornalismo culturale non dovrebbe essere un valore; le redazioni (e parlava della sua esperienza con l’inserto Orwell) dovrebbero aprirsi una volta al mese a chi fa cultura, agli artisti, ai fotografi, ai restauratori, a tutti; un problema vero è quello della proprietà dei giornali e dell’influenza degli investitori pubblicitari, è più facile criticare il Papa che Dolce & Gabbana.

La vivace stagione degli inserti culturali: Lagioia, Raimo, Mastrantonio, Massarenti, Danese.

Tavola rotonda moderata dallo stesso Lagioia, che ha invitato a tenere presenti alcuni dati: gli inserti son tanti ma in realtà faticano, sono poco conosciuti, gli edicolanti talvolta si scordano di darli; contano qualcosa nella società italiana? Probabilmente no, e tuttavia parlano a quei lettori forti che non possiamo mortificare, e quindi sì alle discussioni sui temi seri, i saperi veri, e no ai dibattiti falsi, costruiti.
Pirotecnico l’intervento di Christian Raimo, con slides cartacee più efficaci di quelle che abitualmente proiettiamo sugli schermi. Ecco i nodi, ecco le slides: 1) attenzione ai rischi di ufficiostampizzazione; 2) di autoreferenzialità; 3) di narrativizzazione (la fissazione dello storytelling, del fare racconto, alla Baricco, che non è critica); 4) di anticipazionismo; 5) sui giornali non deve prevalere l’impressionismo, mettiamo al servizio del lettore quello che abbiamo studiato, quello che abbiamo imparato, abbiamo anche un compito educativo, pensiamo al lavoro di Alex Ross sul New Yorker; 6) no a una conservazione classista dei saperi, bisogna schierarsi politicamente; 7) capacità di autocritica; 8) equità nei compensi, l’ordine dei giornalisti dovrebbe vigilare sui siti di informazione.
Armando Massarenti e Roberto Danese hanno ripreso alcuni di questi punti attraverso esempi concreti, parlando della “Domenica” del Sole e di “Alias” del Manifesto, ricordando quanto è importante trovare delle bussole nell’era della dispersione dei saperi, quanto è importante non abdicare ad una funzione alta, che è quella di seguire tutto ciò che si muove nel mondo della cultura e tradurlo nel modo più chiaro e serio possibile, per decine di migliaia di lettori. Ai quali devi dare molto perché pretendono molto, quindi no alle semplificazioni, alla corrività, all’abbassamento dell’offerta, all’assecondare i desideri del mercato. Luca Mastrantonio ha parlato in particolare del Corriere della Sera e de La Lettura, è tornato sul tema dei poteri, delle proprietà e della libertà, della difficoltà di discutere di temi culturali senza perdere soldi e ha ripreso la sollecitazione dell’inizio della mattinata sulla fruttuosità o distruttività dei dibattiti italiani, con una posizione che è sembrata pendere per la prima, figlia della tradizione liberale.

Che succede al di là delle Alpi? Marshall, Notarbartolo, Magi, Hernandez Velasco.

La parola iniziale ad Alberto Notarbartolo, moderatore con sguardo a 360° grazie alla sua esperienza ad Internazionale. Sguardo che gli fa dire che il nostro Paese, il nostro giornalismo non emerge bene dal confronto con le pagine culturali straniere. Più varie, più ricche, più aperte.
E siccome l’erba del vicino sembra sempre più verde tutti gli interventi successivi hanno pensato bene di smentire quest’assunto e dire che le pagine italiane non sono affatto male, e comunque meglio dei Paesi di provenienza dei parlanti. Come Irene Hernandez Velasco e Lucia Magi, spagnole, che scrivono sul Mundo e sul Pais. In Spagna, ha detto la prima, siamo molto più vittime di quella che Vargas Llosa in un saggio recente ha definito la civiltà dello spettacolo, dell’equivoco democrazia/abbassamento dell’offerta, col lettore che va divertito e non istruito. E’ vero, ha confermato Lucia Magi, ma non scordiamo che il giornalismo culturale è comunque giornalismo, e che se si vola troppo alti c’è il rischio di perdere lettori.
Lee Marshall ha disegnato un intervento molto comparativo, spiegandoci quanto cifra distintiva del giornalismo anglosassone sia la recensione, e come la contaminazione tra generi, tra alto e basso – e ha fatto i nomi di Raymond Williams e di Roland Barthes – sia molto più forte che in Europa. Ricordate che culture nel mondo inglese comprende lo spettacolo. A proposito delle recensioni si è interrogato sul futuro dei critici, ha raccontato del grande successo dei siti aggregatori di recensioni (specie cinematografiche) ma ha fatto presente che più o meno 45 pezzi su 60 sono recensioni del cartaceo, quindi il debito degli aggregatori nei confronti dei recensori classici è grande. Anche Marshall si è detto preoccupato per la cultura delle stelline e dei pallini, per il rischio di un rapporto troppo stretto tra industria cinematografica e critici, per la difficoltà della tenuta economica di chi faccia un giornale o una rivista o un sito specialistico in un mondo in cui tanta offerta è gratuita. Interessanti le considerazioni sull’arts reporting, ovvero sulla presenza di cultura (politica culturale, mercato della cultura, polemiche culturali) in parti del giornale che non sono quelle tradizionalmente dedicate alla cultura, un’arma a doppio taglio, così l’ha definita.

Perché le nostre pagine culturali parlano di attualità? Sinibaldi, Zaccuri, Bartoletti, Salis.

Alessandro Zaccuri, colui che ha coniato la condivisibile espressione “sguardo culturale sull’attualità”, a proposito del giornalismo culturale italiano: se parlare di cultura serve solo per parlare di cultura allora è inutile. La cultura deve parlare alla e della società. Lasciare ad esempio l’economia solo all’economia e agli economisti diventa un problema per la società. Stefano Salis, forte della sua esperienza al Sole24Ore, ha messo sull’avviso: non è tanto il cosa che conta, le cose di cui tu parli, ma il come, come ne parli. Per un giudizio critico ci vuole tempo e ragionamento, non possiamo essere vittime dell’attualità, della tirannia dell’attualità e della tirannia dell’attesa del pubblico. Ed è inutile fingere che il giornalismo non sia asimmetrico, che professionista e lettore siano sullo stesso piano, il giornale è un modo di ordinare le notizie del mondo, l’asimmetria è intrinseca. Roberta Bartoletti ha ripreso alcuni passaggi di Marshall, e introdotto il punto di vista della sociologa, dicendosi sorpresa del fatto che il giornalismo culturale italiano stia ancora a interrogarsi su gerarchie e classificazioni, sotto altri cieli sono state smantellate da tempo. Ha chiuso Marino Sinibaldi, che ci ha invitato a riflettere sul tema della difficoltà della mediazione e della selezione di fronte all’aumento quasi esponenziale di fonti e possibilità. Aggiungendo che oggi il nemico è il medio, la medietà rassicurante, come scriveva negli anni ’60 McDonald, e che compito della cultura e dell’informazione culturale di qualità è introdurre lo scarto di linguaggio e di pensiero.
E Marino Sinibaldi ha anche consegnato tutti i temi della giornata, per una riflessione conclusiva, a Concita De Gregorio, che veniva da un incontro con Laura Boldrini all’indomani dell’aggressione via web subita dalla presidente della Camera. E’ stato un modo per riprendere uno dei filoni più fertili tra i nodi affrontati dal Festival, ovvero le caratteristiche del discorso pubblico in Italia, come spesso degradi per via dell’incapacità reciproca di ascolto.

Giorgio Zanchini


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