Chi è Marco Filoni
Ricercatore, giornalista e dottore di ricerca. Chi è Marco Filoni e qual è la sua storia?
Provengo da studi filosofici (proprio a Urbino, sotto la guida di un maestro indimenticato come Livio Sichirollo) e, dopo aver fatto il canonico iter accademico (dottorato, postdottorato ecc.) ho avuto la possibilità di fare il giornalista culturale. Che, in definitiva, è un altro modo di continuare a fare la stessa cosa: studiare, fare ricerca, scrivere – pensando però a un pubblico differente.
Che cosa consiglia ai ragazzi che vorrebbero intraprendere un percorso simile al suo?
Non credo vi siano regole precise. Anche perché il mondo dei media è molto cambiato (e continua a cambiare con straordinaria velocità). L’informazione in generale (così come quella culturale) sta evolvendo e, in questa evoluzione, va considerata la crisi generalizzata della carta stampata. Ebbene, come sempre nei momenti di crisi, si aprono anche possibilità fino a oggi impensabili. Perciò ai giovani consiglierei di individuare e approfittare di queste possibilità, considerando la propria epoca e i meccanismi che la governano (penso per esempio alla “personalizzazione” di notizie, visto che oggi siamo sempre più sommersi di informazioni ma allo stesso tempo abbiamo sempre meno attenzione – che è diventata un vero e proprio “mercato”; così come consiglierei di lavorare sui podcast, che negli Stati Uniti hanno visto un vero e proprio boom mentre da noi non sono ancora decollati)…
Qual è, secondo lei, l’importanza e il valore della cultura umanistica in un contesto come quello di oggi, sempre più improntato verso una cultura di tipo tecnico e scientifico?
Proprio perché il contesto odierno è sempre più votato a una cultura di tipo tecnico e scientifico credo ci sia un bisogno maggiore di un umanismo diffuso. Naturalmente questo tipo di cultura umanistica deve sapersi liberare da alcuni recinti – come l’autoreferenzialità, il rimaner chiusi nel proprio “vecchio mondo antico” fatto di gergo e pensieri oscuri: insomma, liberarsi dall’immagine che Gadda chiamava quella dell’intellettuale tartufone. Ricordo sempre con piacere un aneddoto: quando il banchiere Raffaele Mattioli, negli anni Trenta del Novecento, assunse a capo dell’ufficio studi della Banca Commerciale Italiana Antonello Gerbi, disse a un amico inglese “Ho assunto un filosofo domato”. E allo stupore dell’amico, esclamò: “Ma come non lo sa? Se vuol qualcuno che capisca il mondo, chiami un filosofo”.
Patrimonio culturale. Una storia, 1000 per raccontarla è il tema della prossima edizione del Festival. Che cosa si può fare, secondo lei, per raccontare il settore culturale a nuovi, e in alcuni casi più giovani, pubblici?
Avere coraggio. E non aver paura di dimostrare che tutto è cultura, che senza vengono meno gli strumenti per capire il nostro mondo e sapersi orientare nel grande caos della nostra epoca. Senza cultura non c’è storia, senza cultura non c’è capacità di comprendere il proprio tempo. Come diceva spesso il grande storico dell’antichità Arnaldo Momigliano, “a non leggere non succede nulla”.
Ci consiglia un libro?
Scelgo un romanzo: Exit West di Mohsin Hamid (Einaudi). Si tratta di un libro necessario capace di porre domande, aprire scenari, far riflettere. E non è poco…