#GliamicidelFestival una rubrica per raccontare le personalità del Festival, i direttori, gli ospiti e i tantissimi amici che ci supportano e faranno parte della prossima edizione.
Archeologo, accademico e oggi Presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici del MiBACT. Qual è la storia di Giuliano Volpe?
È la storia di una persona che compie 59 anni nel giorno stesso in cui risponde a queste domande, facendo anche, come accade a tutti ad una certa età, un bilancio di risultati positivi e fallimenti, di soddisfazioni e delusioni, di gioie e amarezze. È la storia di un ragazzo di una famiglia modesta (genitori con un negozietto, unico laureato di cinque figli) in un piccolo paese del Sud, che deve tutto ad alcuni bravi professori del liceo e dell’università, che ha voluto restare (o meglio tornare) al Sud convinto che ci fosse tanto da fare, che ha percorso tutta la carriera universitaria senza essere “allievo di”, diventando ordinario a 42 anni, rettore dell’Università di Foggia a 50 e Presidente del Consiglio superiore BCP a 55 (ero nel Consiglio già da due anni in rappresentanza delle regioni e sono stato designato dal ministro Dario Franceschini, che non conoscevo prima). Non credo affatto che sia una storia particolare, ma ne vado fiero, soprattutto perché dimostra che anche in un paese chiuso, gerontocratico, poco meritocratico, con scarsa mobilità e tanti condizionamenti determinati da appartenenze (familiari, politiche, accademiche, religiose, massoniche, ecc.), c’è spazio per chi voglia impegnarsi.
Che cosa l’ha spinta verso l’archeologia e la tutela dei beni culturali, e che cosa consiglierebbe a un giovane che vorrebbe intraprendere un percorso simile al suo?
L’archeologia l’ho scoperta all’Università dove studiavo letteratura e storia antica e l’ho subito amata sia perché ho immediatamente colto le possibilità di occuparsi di storia del passato attraverso altre fonti, quelle materiali, sia perché a me più congeniale: amo studiare il passato ma essendo attivo nel presente, coniugare lo studio all’attività manuale, lavorare sul campo, essere militante. Insomma, l’archeologia e il patrimonio culturale mi offrono la possibilità di conciliare le mie due passioni: la ricerca e l’impegno civile. Ho avuto la fortuna, da studente, di partecipare a scavi importanti come quello della villa romana di Settefinestre in Toscana e della Crypta Balbi a Roma e poi di dirigere molti scavi, terrestri e subacquei, in Italia e all’estero, occupandomi in particolare di archeologia dei paesaggi e scegliendo di studiare un momento cruciale della storia, fino a tempi recenti alquanto sottovalutato: la fine del mondo antico e il passaggio al medioevo, un momento complesso, drammatico, di profondi e drammatici cambiamenti, per certi versi vicini a quelli che stiamo vivendo. Ad un giovane consiglerei di studiare, di lavorare duro ma soprattutto di fare le proprie scelte con passione. Da anni l’Università italiana vive un momento di grande difficoltà, ma ci sono anche notevoli opportunità per chi voglia studiare archeologia e mi auguro che a breve si riaprano maggiormente le possibilità occupazionali. Siamo molto impegnati in questo campo anche con le riforme in atto nel settore dei beni culturali. Sento una sorta di dovere etico nei confronti dei giovani, perché abbiano almeno le stesse opportunità che ho avuto io molti anni fa.
Negli ultimi anni si è prestata maggiore attenzione verso tematiche e obiettivi di valorizzazione del patrimonio artistico e culturale. Perché è tanto importante promuovere questo aspetto? Pensa che sia siano fatti dei progressi in questo senso?
Da alcuni anni è in atto una riforma radicale (direi anzi una vera e propria rivoluzione) che sta cercando di modificare il concetto stesso di patrimonio culturale, in linea con i principi della Convenzione europea sul valore del patrimonio culturale (Faro 2005), che spero sia finalmente ratificata dal nostro Parlamento. Una tutela meno legata solo ai divieti e ai vincoli (pur sempre necessari) e più attiva e progettuale, e soprattutto più contestuale (ecco il perché delle soprintendenze uniche a base territoriale al posto delle precedenti soprintendenza settoriali). Una maggiore attenzione alla valorizzazione, insieme alla tutela: noi tutti conserviamo con cura solo le cose cui attribuiamo un valore (non solo venale, ma anche affettivo, perché si tratta di un ricordo, è qualcosa di caro, di prezioso per noi), cose che consideriamo ‘utili’; quelle cose per noi senza valore le gettiamo via, nella spazzatura o al massimo le releghiamo in soffitta; così intendo il concetto di valorizzazione, da alcuni spregiativamente confusa con la mercificazione. Ecco perché la rivoluzione dei musei, con l’obiettivo di fare dei musei un vero ‘servizio pubblico essenziale’, capaci, cioè, di aprirsi a tutti, di includere, di essere vivi, di essere luoghi di studio e di educazione ma anche di piacere, di godimento, come è scritto nella legge del 2014. Se il patrimonio culturale riuscirà a favorire anche nuove forme di occupazione, di lavoro vero, di economia sana, pulita, colta, sostenibile, sarà un successo per il nostro Paese. Ed è anche grazie al suo patrimonio culturale che l’Italia potrà svolgere anche un ruolo in Europa e nel mondo.
Ovviamente, come nel caso di ogni riforma radicale, ci sono errori (da riconoscere e da correggere), cose da migliorare e si sono registrate anche molte opposizioni e resistenze, non solo da parte di chi difende privilegi e rendite di posizioni ma anche di chi ha legittime idee diverse. Sarebbero necessari un maggior ascolto reciproco, un maggiore rispetto delle idee diverse, ma soprattutto il coraggio di accettare la sfida del cambiamento.
Patrimonio culturale. Una storia, 1000 per raccontarla è il tema della prossima edizione del Festival. Che cosa si può fare, secondo lei, per raccontare il settore culturale a nuovi, e in alcuni casi più giovani, pubblici?
La comunicazione culturale svolge una funzione determinante, centrale, preziosa, soprattutto in una fase di cambiamenti quale quella che stiamo vivendo. Troppo a lungo anche certa stampa ha avuto poco coraggio e si è appiattita ad una sorta di ‘pensiero unico’.
Se abbiamo l’obiettivo di porre al centro le persone, i cittadini, le comunità, i visitatori e se desideriamo consentire a ciascuno, con la propria sensibilità e il proprio punto di vista, di scoprire il valore del patrimonio culturale, allora dobbiamo consentire a tutti di appropriarsene, attraverso la conoscenza. E la conoscenza non è possibile senza un’adeguata comunicazione, oggi anche utilizzando le tecnologie, alle quali sono particolarmente sensibili i più giovani. Ritenere che l’unica forma di fruizione sia la contemplazione e arricciare il naso, sdegnati, per un selfie fatto davanti ad un’opera d’arte, un monumento o un paesaggio, o per una foto pubblicata su Instagram o Facebook significa assumere lo stesso atteggiamento di chi guardava con sospetto le lampadine al posto delle candele o la stampa a caratteri mobili rispetto ai manoscritti. Con una precisazione, però. Le tecnologie sono ormai irrinunciabili (nell’epoca degli smartphone tuttofare) ma sono solo uno strumento: ben più importante è il progetto culturale e comunicativo. Si può usare un semplice disegno ad acquerello o una ricostruzione informatizzata 3D, un plastico o un prodotto multimediale poco importa, ciò che conta è quello che si intende raccontare e le domande che si cerca di suscitare. Troppo spesso si fraintende l’uso delle strumentazioni ICT, dando più importanza (e risorse) alle macchine, peraltro rapidamente obsolete, che ai contenuti, con il rischio di sostituire il virtuale al documento reale, anziché porlo al suo servizio nel quadro di un complessivo progetto culturale. Insomma, c’è tanto lavoro per chi si occupa di giornalismo e comunicazione culturale per offrire un racconto storico.
Ci consiglia un libro?
Mi piace molto leggere, anche libri che poco hanno a che fare con lo studio (romanzi, gialli, racconti, saggi vari, ecc.) e avrei quindi tante letture da consigliare, ma in questa occasione suggerisco l’ultimo saggio di Andrea Carandini, La forza del contesto (Laterza), perché spiega in maniera efficace perché è necessario passare dal ‘testo’ al ‘contesto’, dal museo al paesaggio, dall’Italia considerata come un ‘museo diffuso’ all’Italia come il ‘contesto dei contesti’. Troppo a lungo ha prevalso un’attenzione esclusiva per il singolo monumento, o al massimo per antologie di monumenti, mentre serve finalmente passare allo studio, alla tutela e alla valorizzazione contestuale, che pongano al centro i paesaggi. I paesaggi sono la nostra vera carta d’identità, i paesaggi siamo noi. I paesaggi sono, infatti, opera non di una singola persona e meno che mai di un solo artista o ma sono il prodotto delle azioni millenarie delle comunità insediate in un territorio in rapporto all’ambiente. Dobbiamo imparare a cogliere e a raccontare questi sistemi complessi di relazioni. Perché, come scrive Carandini, «un volto non è mai la somma di capelli, fronte, orecchi, occhi, guance, naso, bocca, mento e collo, ma una loro speciale composizione, a parole non descrivibile ma che l’occhio in un lampo riconosce…».